Stranded Horse
Luxe
Quando le foglie cominciano a scolorire, quando gli alberi si incendiano di cremisi e le prime piogge sciolgono i legacci dellafa, quando il buio si divora le giornate, è proprio allora che accolgo lautunno e penso a Churning Strides. A quanti momenti del mio vissuto personale, nel corso degli ultimi dieci anni, siano stati segnati dalla voce nasale di Yann Tambour, dalle sue canzoni scheletriche, dai suoi arpeggi mesmerizzanti, dagli impossibili incroci tentacolari tra chitarra e kora. A come, per la mia sensibilità, lesordio di Thee, Stranded Horse (con la successiva depennazione del pronome) sia niente meno che un disco epocale, addirittura generazionale, un accecante lampo espressionista. Oggi, alla soglia degli anta, Tambour non vaga più come un cavallo abbandonato, ramingo ed esule: il suo minimalismo si è fatto collettività, la poetica denudata slancio corale, lo straniante isolazionismo affollamento. Il tardo novembre, anchesso, è diventato il primo settembre.
Se già Humbling Tides (2011) cercava di combattere, con mirate aggiunte orchestrali, la spoliazione strumentale del primo capitolo, Luxe si spinge addirittura oltre, ambendo ad abbracciare una dimensione allargata da band. Prima e diretta conseguenza è la marginalizzazione di quei mantra ossessivi, spezzati e spiraliformi che avevano cementato la fortuna di Tambour: ne rimane una traccia evidente nelle variazioni di timbro ed intensità della danza circolare di A Faint Light, oltre che, in maniera ancora più esplicita, nella trattenuta ipnosi di Sharp Tongues (con intense seghettature di archi ad opera del trio Vacarme) e in Dakar (larpeggio dapertura è lo stesso di Swaying Eel, anche se qui il suono è meno raccolto e corrusco e assai più esotico). È precisamente nella capitale del Senegal che le coordinate di Luxe si sono definite con chiarezza, nel segno di una transizione verso uno stile ibrido, meno autistico, che incorpora più marcate risonanze world (si prendano le cristalline progressioni della kora di Boubacar Cissokho nellatipico blues di Unusual Ways, sfrangiato dai violini) e si apre a soluzioni aperte fino ad oggi quasi impensabili (il solare gypsy-mariachi di Ode To The Scabies, la guizzante chanson di Monde con la voce femminile di Eloïse Decazes, una Refondre Les Hémisphères che ricorda un altro Yann, Tiersen).
Gli esiti, generalmente parlando, continuano ad essere buoni, quando non ottimi (anche se non basta il balafon di Bakoutoubo Dambakhate a rendere interessante My Name Is Carnival, cover di Jackson Frank: lomaggio agli Smiths era su un altro livello). Il vero problema sta nella spersonalizzazione del risultato finale, che nellambizione di formalizzare una Françafrique musicale a tutto tondo perde spesso di vista lintensità emotiva delle canzoni. Luxe, sotto questo aspetto, è lontanissimo da Churning Strides: così come il cervello, pur interconnesso col cuore, ne è da esso completamente smarcato.
Di un po di cervello, almeno per una volta, ne avremmo fatto volentieri a meno.
Tweet