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R Recensione

6/10

Stranded Horse

Luxe

Quando le foglie cominciano a scolorire, quando gli alberi si incendiano di cremisi e le prime piogge sciolgono i legacci dell’afa, quando il buio si divora le giornate, è proprio allora che accolgo l’autunno e penso a “Churning Strides”. A quanti momenti del mio vissuto personale, nel corso degli ultimi dieci anni, siano stati segnati dalla voce nasale di Yann Tambour, dalle sue canzoni scheletriche, dai suoi arpeggi mesmerizzanti, dagli impossibili incroci tentacolari tra chitarra e kora. A come, per la mia sensibilità, l’esordio di Thee, Stranded Horse (con la successiva depennazione del pronome) sia niente meno che un disco epocale, addirittura generazionale, un accecante lampo espressionista. Oggi, alla soglia degli anta, Tambour non vaga più come un cavallo abbandonato, ramingo ed esule: il suo minimalismo si è fatto collettività, la poetica denudata slancio corale, lo straniante isolazionismo affollamento. Il tardo novembre, anch’esso, è diventato il primo settembre.

Se già “Humbling Tides” (2011) cercava di combattere, con mirate aggiunte orchestrali, la spoliazione strumentale del primo capitolo, “Luxe” si spinge addirittura oltre, ambendo ad abbracciare una dimensione allargata da band. Prima e diretta conseguenza è la marginalizzazione di quei mantra ossessivi, spezzati e spiraliformi che avevano cementato la fortuna di Tambour: ne rimane una traccia evidente nelle variazioni di timbro ed intensità della danza circolare di “A Faint Light”, oltre che, in maniera ancora più esplicita, nella trattenuta ipnosi di “Sharp Tongues” (con intense seghettature di archi ad opera del trio Vacarme) e in “Dakar” (l’arpeggio d’apertura è lo stesso di “Swaying Eel”, anche se qui il suono è meno raccolto e corrusco e assai più esotico). È precisamente nella capitale del Senegal che le coordinate di “Luxe” si sono definite con chiarezza, nel segno di una transizione verso uno stile ibrido, meno autistico, che incorpora più marcate risonanze world (si prendano le cristalline progressioni della kora di Boubacar Cissokho nell’atipico blues di “Unusual Ways”, sfrangiato dai violini) e si apre a soluzioni “aperte” fino ad oggi quasi impensabili (il solare gypsy-mariachi di “Ode To The Scabies”, la guizzante chanson di “Monde” con la voce femminile di Eloïse Decazes, una “Refondre Les Hémisphères” che ricorda un altro Yann, Tiersen).

Gli esiti, generalmente parlando, continuano ad essere buoni, quando non ottimi (anche se non basta il balafon di Bakoutoubo Dambakhate a rendere interessante “My Name Is Carnival”, cover di Jackson Frank: l’omaggio agli Smiths era su un altro livello). Il vero problema sta nella spersonalizzazione del risultato finale, che – nell’ambizione di formalizzare una Françafrique musicale a tutto tondo – perde spesso di vista l’intensità emotiva delle canzoni. “Luxe”, sotto questo aspetto, è lontanissimo da “Churning Strides”: così come il cervello, pur interconnesso col cuore, ne è da esso completamente smarcato.

Di un po’ di cervello, almeno per una volta, ne avremmo fatto volentieri a meno.

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