R Recensione

7/10

Vashti Bunyan

Somethings Just Stick in Your Mind

La prima volta che sentii “Blowin’in the wind” ero alla scuola d’arte. Il tipo che la suonava non me la insegnò perché non riteneva giusto che una ragazza cantasse Dylan! Mi sembrò la cosa più bella che avessi mai sentito: dentro c’era tutto quello che io avrei voluto dire.

(Vashti Bunyan)

 Ereditando in parte l’alterno destino del suo più noto antenato John (autore di “The Pilgrim’s progress”, forse la più nota opera religiosa della letteratura anglosassone) Vashti Bunyan fluttua da oltre quarant’anni sospesa fra vecchio e nuovo mondo, fra tradizione e innovazione, fra le natie brughiere e le cantine viziate del Village. Complessivamente: fra la venerazione “carbonara” tipica del culto e una consapevole, silenziosa anomia. Quelli della mia generazione forse si ricorderanno di lei per la discreta partecipazione ai dischi di alcuni fra gli esponenti più interessanti della nuova scuola folk, dal “freak” Devendra Banhart alla “druida” Joanna Newsom, o avranno comunque sentito nominare lo splendido EP di canti “concreti” condiviso con gli Animal Collective; magari un CD intitolato Lookaftering (FatCat Records,2005), arricchito dalla partecipazione di un’ulteriore schiera di giovani promesse (Adem, Otto Hauser degli Espers, Adam Pierce dei Mice Parade) tenuti a battesimo con la benedizione orchestrale di Max Richter, calza a pennello sul piatto del vostro lettore.

I più fortunati, frugando nel ciarpame accumulato in soffitta dai propri genitori, potrebbero essersi imbattuti in un 33 giri d’antan, una giovane imbacuccata come una locandiera del Lancashire in copertina, Just another diamond day, che risale addirittura al 1970 (se è così, Dio Cristo, tenetelo da conto, perché mi risulta che su E-Bay sia stato venduto a più di 2000 $!). Per tappare le crepe della memoria e fare luce sul romito, singolare sentiero battuto da un’artista che, delusa dall’industria discografica, si è ritirata a vita privata per quasi trent’anni dopo un eccellente debutto, capita giusto a fagiolo la doppia raccolta Some things just stick in your mind (FatCat Records, 2007) contenente tutto il materiale inciso dalla Bunyan fra il 1964 e il 1967.

In particolare il primo CD suggella un florilegio di singoli, b-sides e outtakes varie che descrivono nitidamente la maturazione musicale della Vashti (buffa e infreddolita nella mise di copertina con la pelliccia di due misure più grande che fa da sipario ai collant color biancospino) dai madrigali in odore di “Swinging London” (frammisti di folk intellettuale alla Peter,Paul & Mary/Simon & Garfunkel) tipo Some things just stick in your mind (scritta da Jagger e Richards nel 1965 per il suo debutto su 45 giri), I want to be alone (primo pezzo autografo e lato B della precedente), Winter is blue (straordinario cesello onirico/orchestrale originariamente inserito nel documentario “Tonite let’s all make love in London”, stravagante squarcio della scena psichedelica sessantasettina con interviste a Lennon, Pink Floyd, Eric Burdon, Mick Jagger, Allen Ginsberg, Vanessa Redgrave, Julie Christie e addirittura Lee Marvin! Recuperatelo, vi garantisco parecchie ghignate di giubilo!), Love Song e The coldest night of the year (un duetto con gli allora famosissimi Twice as much prodotto da A.L.Oldham nel 1966, una cover di Mann & Weill ridotta ad un incrocio camp fra Simon & Garfunkel e Je t’aime moi non plus, con la timida Vashti visibilmente a disagio nei panni della seduttrice sospirosa), allo psych folk medioevale e minimale che anticipa lo stile del disco d’esordio con Wishwander, Don’t believe e 17 pink sugar elements (caramello asprigno da fiera di Scarborough, arpeggi che si arricciano su se stessi come spaghi dorati, Vashti qui un po’ Alice e un po’ Euridice), auspice anche l’influenza dell’amico Donovan, Train song e I’d like to walk around, Fairport Convention e Incredible string band, If in winter (100 lovers) e Girl’s song in winter (con titoli così ci credo che poi una va in giro in pelliccia!).

Ma il meglio lo troviamo nella seconda parte, fedele resoconto di un demo inciso dalla Bunyan nel 1964 praticamente in presa diretta, una canzone via l’altra, straordinario esempio di lo-fi ante litteram. È sufficiente auscultare il crepitio della lingua contro il palato, il caldo fruscio del respiro, il molle velo della saliva che umette le cesure dell’arco melodico, mentre balenano sulle poche ruvide piste dell’annosa registrazione, per comprendere il suo ritroso potere di suggestione nei confronti della scena attuale. Vashti è una delle sirene di Omero immortalata da Chaucer mentre ammalia bardi e pellegrini coi melismi soffici e il picking danzante di canzoni/novelle quali sono How do i know, Find my heart again, Go before the dawn e I know. C’è da giurare che le “nipotine” Basia Bulat e Joanna Newsom (fra le altre) troveranno delle piacevoli sorprese fra questi cimeli di famiglia. E non solo loro, Vashti, luce delle mie pupille e gioia per le mie orecchie.

P.S. Il voto è una media sommaria fra il primo CD, un po’ effimero e il secondo, a mio avviso, seminale. Il valore della raccolta è in ogni caso assoluto. Provare per credere.

V Voti

Voto degli utenti: 8/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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Marco_Biasio alle 19:49 del 30 ottobre 2007 ha scritto:

Ascolterò assolutamente volentieri

E' un ritorno davvero insperato, e non so sinceramente tutti questi anni di inattività quanto bene abbiano fatto alla vena cantautoriale della Bunyan, ma personaggi di questo calibro sono, sempre e comunque, da seguire. Bellissima recensione.