Wig Smith
A Means Of Escape Through A Hedge
Sono riuscito a contattare William (o Wig) Smith, dopo alcuni mesi dall’esser rimasto incantato dalla sue “cose folk” ascoltate – sempre per caso – sulla sua pagina myspace, probabilmente cercando proprio cosa e chi trovavo. Infatti, dopo avergli scritto e essendomi riservato un momento più “denso” per l’ascolto, ho capito che avrei conosciuto questo musicista di Bristol, anima di un percorso musicale che lo vede compositore e poli-strumentista della sua bellissima, verde musica, più da vicino. Le nostre parole via-mail ci hanno portato da subito a una insolita confidenzialità.
Così, un giorno di qualche mese fa trovo in buca alla cassetta delle lettere un magico pacco con i suoi suoni, tre dischi, due più un mini-cd, dunque l’intera produzione di Wig Smith – a sorpresa: il suo disco da solista A Means Of Escape Through A Hedge; quello co-firmato con Rachael Dadd – che già lo affianca alla voce e al clarinetto nel primo – con il nome-progetto The Hand e intitolato Berries From The Rubble; e in ultimo, il mini-cd in cui si trovano sue composizioni al piano, davvero notevoli e “coerenti” con le origini classiche talvolta qui prossime a un jazz “naturalistico” perfettamente ispirato e raggiunto attraverso il suo pure folk purificato (se può servire a rendere il senso frondoso, questa ridondanza) da ogni qualsivoglia neo, o ismo. Il tutto con l’augurio di una buona primavera da parte di un amico, Wig.
A Means Of Escape Through A Hedge sprigiona una grazia sommessa (e rorida) dal primo all’ultimo fiato, strumento pizzicato, soffiato, verseggiato in veste di un canto che pare da subito atto a un inno alla natura, l’orlo dei verdi respiri differenti di ogni foglia, in un bosco (kora, chitarra, piano, fisarmonica, ukulele e voce, sono gli elementi alberati di Smith).
Si diceva una grazia sommessa, e sommersa come un brillare dal primo capoverso, dal fondo della prima traccia (“Frost”) che riemergendo apre le danze dalla brina, e pare un inno alla maternità, un’apertura, un parto, come di quel naturale soffio di appartenenza al respiro delle cose. Pare di aprire un libro, e la sua seconda pagina, o poemetto (“Elm tree tall”) salterellante su di un piano giocoso, ha quel mistero classico e corale che potrebbe forse impaurire, di certo incuriosire anche un bambino. Si procede così, le chitarre sono nitide e la voce, che potrebbe sussurrare brividi alla Drake per quel suo calore tutto inglese, vitale e virato-blues, suo soul solo, malinconico e ispirato da far chiudere gli occhi, e non è enfasi mi si perdoni!
In “Sprigging him with tansy” c’è davvero qualcosa di inquietante, sarà quell’armonica “plagiata”, sarà il ritmo incalzante dei fiati e del cantato. Talvolta il ruscello scroscia, l’elemento “liquido” si palesa (“The sentience of toes”) e suona con tutta la sensibilità delle dita e dell’aria che attraversano possibilità e sensazioni, e ancora brillii. Dichiarazioni e chiarimenti blues (“Roses”). Ecco il verso di “Bellow’s Song”, il suo verso prezioso e dedicato (qui le voci, due, maschile e femminile, Wig e Rachael Dadd, inneggiano a Saul Bellow nel giorno della sua dipartita), e a seguire un omaggio ai canti religiosi di Benjamin Britten (riferimento musicale del musicista). “Keeper of the swans” è una sua poesia musicata con cigni. “Ashevak” è (ed è ispirata da) una scultura. Si chiude con “la canzone delle tre rupi” che a detta dello stesso Wig suona di un sentimento esilarante.
Un disco tanto evocativo, prezioso sin dalla sua confezione cartonata coi tre profili illustrati sulle facciate (un volto-corteccia, un volto-parole, un occhio-monocolo su un volo di gabbiani). Di certo religioso, come il folk talvolta “di genere” sa essere, per ispirazione, e naturalità.
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