Mark Lanegan & Duke Garwood
Black Pudding
Con luscita di Blues Funeral, lo scorso anno, il prode Lanegan ha finalmente colmato la mancanza di un vero e proprio disco solista che durava quasi un decennio.
Un album ambizioso, ricco di stratificazioni elettroniche e di sonorità poco frequentate dal rocker di Ellensburg, che se da un lato ha un po diviso la critica, dallaltro si è rivelato uno dei maggiori successi commerciali della carriera del musicista (specialmente in Europa), consacrandolo come una delle icone (e delle voci) cantautorali più emblematiche degli anni duemila. Forse pago del risultato ottenuto, Lanegan sè di nuovo immerso in quella che è stata la sua specialità assoluta nella decade appena trascorsa: i dischi firmati a quattro mani o comunque frutto di collaborazioni più o meno collettive. Questa volta è Duke Garwwod, songwriter e multistrumentista inglese, il beneficiario della sua carismatica presenza musicale. I due, a quanto pare, si conoscono e si stimano da tempo: Garwood infatti aveva già incrociato Lanegan nel progetto Gutter Twins (con Greg Dulli) e prestato la sua abilità di chitarrista a due dei brani (a mio avviso) più riusciti del suddetto Blues Funeral (Bleeding Muddy Water e Tiny Grain Of Truth).
Con laiuto di un altro musicista esperto e collaudato quale Alan Johannes (chitarra e tastiere, componente effettivo della Mark Lanegan Band) , il duo confeziona un lavoro che, almeno per Lanegan, sa di ritorno alle origini, ai primissimi dischi solisti (The Winding Sheet ad esempio), caratterizzato da forti accenti roots , scarno e intimista nella prevalenza di voce e chitarra acustica (che evidenzia le doti di fingepickin di Garwood), una produzione sottotono, disadorna al limite del lo fi e atmosfere che denotano una cupezza austera e a tratti un po asfittica. Tolti i due brani strumentali in apertura e chiusura (la title-track e Manchester Special), la scrittura ha un impianto semplice e ripetitivo, non sempre allaltezza della situazione, su cui torreggia immancabile la classe del cantato di Lanegan, sempre a uguale a se stesso ma pur sempre suggestivo ed efficace, come una specie di Johnny Cash del 21mo secolo. Questi, invero, dà buona prova di sé in particolare nel country-western alternativo e funereo di War Memorial o in quello più assolato e desertico di Death Ride e nella crepuscolare e vagamente cinematica Shade Of The Sun, oltre che nella psichedelia appena suggerita di Sphinx. Per il resto, nonostante il tentativo di inserire qualche variazione degna di nota la base electro punteggiata sul cantato bluesy di Cold Molly, il piano glaciale e dissonante di Last Rung, il gotico-sudista di Pentecostal e del gospel caveiano Thank You limpressione è di una certa stanca e di unispirazione non esattamente fulgida (i sei minuti di Mescalitos, i due strumentali pregevoli tecnicamente ma nulla più).
Il mestiere dei due musicisti e linterpretazione ruvida e vissuta di Lanegan (banale forse sottolinearlo per la duecentesima volta, ma tantè) tengono a galla un lavoro che, in estrema sintesi, non aggiunge nulla di nuovo né tantomeno di entusiasmante.
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