Scott Matthews
What The Night Delivers...
Con una "s" in più, giusto per non confonderci; perché non stiamo parlando di Scott Matthew, notevole cantautore dream-folk dalla voce ansimante e dal barbone spesso ("There Is An Ocean That Divides And With My Longing I Can Charge It With A Voltage That's So Violent To Cross It Could Mean Death" bello quanto lungo da leggere). Non stiamo parlando di lui, e non continueremo oltre; se possibile, parliamo di un collega inglese ancora più talentuoso: Scott Matthews, 35 inverni, da Wolverhampton, giunge a noi attraverso i contorni bianchi e neri del suo terzo album, "What The Night Delivers...". E quello che ci consegna la notte, bene dirlo subito, è un capolavoro folk vecchia maniera che fa tornare alla vita – alla pelle e alle orecchie nostre – Nick Drake e Jeff Buckley contemporaneamente, intatti e puri come li avevamo lasciati.
Abbandonati i passi incerti dei '70 in ritorno di fiamma rock ("Elsewhere"), Matthews fa due, tre, mille salti indietro per riprendere invece gli ultimi '60 di certo folk cameristico crepuscolare e quasi timido, intimissimo e senza tempo: fin da subito, dunque, veniamo ammaliati dagli arrangiamenti magnetici della chitarra di Matthews, minuziosi nei loro movimenti circolari, quasi sempre essenziali e preziosi, accompagnati alcune volte da un'apertura di synth che spazza ogni orizzonte e si fa volo d'uccello ("Myself Again"). La percezione epidermica – le braccia una distesa campestre di peli ritti – è di fascino sconfinato per un minimalismo acustico che non è il fingerpicking vorticoso e abilissimo di Kozelek (Sun Kil Moon), ma che gli si avvicina empaticamente nella forma più placida e cantautorale. La voce infatti, cuore pulsante dell'album, richiama alla mente non solo Kozelek ("Ballerina Lake" e il cullare flessuoso e ridondante dei suoi accordi, e una voce quasi trascinata che è mare senza increspature), ma anche e soprattutto un incontro meraviglioso tra Jeff Buckley e Thom Yorke (il diamante primo "Walking Home In The Rain" quando recita "But I never want to be the overdose / That becomes way too much to take" con quel suo urlo finale che squarcia il mondo è "Grace" ora e sempre). Due timbri incredibili per una persona sola è ben più di una semplice fortuna, è autentico talento per la capacità unica di Matthews di riversarli nelle misure e nei tempi giusti, tanto che a volte ci sembra di sentire più l'uno che l'altro e viceversa ("So Long, My Moonlight" riprende i versi stanchi e lamentosi di Yorke nel ritornello, ma in tutto il resto è la blues-ballad che avrebbe concepito Buckley nell'iperuranio con trombone e contrabbasso).
Ma quando l'album impressiona sul serio è nel momento in cui ci si rende conto che a una prima parte stupenda, che vede il suo picco emotivo nella ninna-nanna sad-core di "Obsession Never Sleeps" (una Radioheadiana "No Surprises" al rallentatore mentre Matthews intona "Obsession never sleeps / You wake with it caressing your cheek / Just how can you ignore the one thing you would die for?", sostenuta prima dalle profondissime linee di basso di Danny Thompson e poi da una viola vibrante e grave), corrisponde una seconda parte del disco ancora più intensa e commovente. La poetica di Matthews scioglie i nodi più cupi della quotidianetà affettiva ("Do you ever feel your heart’s been denied / Of happy ever endings amidst a fading light? / I think it’s time for change / Cause I want you to wake not worrying about tomorrow" conclude il bozzetto folk "Head First Into Paradise" costruito su pochi accordi nudi di chitarra e xilofono al cristallo), e si fa cura di tutti i mali anche solo condensando in pochi minuti di canzone un oceano di emozioni fortissime ("I’ll suffocate this city / Just so we can breathe in all the life / In the explosion of emotion I’m the drug / To take away your pain / But I never want to be the overdose / That becomes way too much to take" da "Walking Home In The Rain" è pura magia). E parlando proprio di emozioni, come non farsi vincere dalla spiritualità notturna di "Echoes of The Lonely", altro prodigio di escursione tonale nelle corde di Matthews, qui tese all'incanto ipnotico in una dimensione quasi sacrale; se per quasi tutto l'album, poi, il ritmo si tiene sempre sotto qualche milione di battiti, tra il muto raccoglimento e la morte apparente, ci pensa "The Man Who Had Everything" a rinvigorire un po' la notte con i suoi cambi di passo per tom e grancassa e gli accordi della chitarra filtrati da effetti e distorsioni. A chiusura dei gelsomini, quando l'alba non è più un miraggio, una voce proiettata nello spazio e l'urna molle di un pianoforte impolverato ("Piano Song").
E verrebbe da raccontare altre note di questa autentica bellezza musicale, tirare fuori altre emozioni dal cassetto, urlare a tutte le lune rosa del mondo la propria felicità, ma dopo un album così bello e fuori dal tempo rimane solo il silenzio del primo mattino e cicale a macchie sparse: ma soprattutto rimane la consapevolezza, forse cieca forse no, di aver appena assistito a un piccolo miracolo.
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