Davide Van De Sfroos
Akuaduulza
Chi è Van De Sfroos ormai lo sanno un po’ tutti, dalla Sardegna al Salento, dal Giappone a New Orleans. Cantautore dialettale proveniente dal Lario affetto da una profonda curiosità per tutte le forme musicali che esulano dal semplice folk nostrano: nativi americani, jazz, Springsteen, punk, mescolati a musica da balera, De Andrè e taranta sono la formula vincente del nostro menestrello, senza scordare i suoi testi poetici e tragicomici. Dopo “Breva e Tivann”, “E semm partii…” (disco che l’ha portato al successo e a mio parere miglior episodio della sua discografia) e “Laiv”, registrato dal vivo come si può capire dal gioco di parole, il 2005 vede l’uscita di “Akuaduulza”, forse la meno convincente tra le prove studio.
Per non essere frainteso vorrei precisare che con meno convincente non intendo dire che l’album è pessimo ma che preso nella sua interezza rischia di deludere. “Akuaduulza” viene costruito come un concept album “dark” su streghe, fantasmi, boschi, prostitute e, ancora più oscuro, animo umano. Il fil rouge “halloweeniano” ha sicuramente una facile presa sui giovani “alternativi”, ma il modo in cui Davide tratta il tema non è banale e nemmeno trito.
Togliamoci subito il dente affrontando i punti deboli, ovvero quei brani che risultano dispersivi per la continuità narrativa e musicale. In apertura c’è uno di questi, e partendo male si rischia di compromettere l’assimilazione dell’opera. “Madame Falena”: ballo tzigano e spagnoleggiante dai ritmi indiavolati, troppo lungo, alla lunga irritante. “Caramadona”: ripetitivo lamento sostenuto da decise pennate acustiche. “Preghiera delle Quattro Foglie”: autocompiacimento sciamanico, ennesima poesia per chitarra e voce, il Davide ne ha partorite di migliori, una su tutte “Ventanas”.”Il corvo”: chi aveva bisogno di un hard rock ridondante tra feedback e voce rabbiosa in italiano? “Rosanera”: la storia di una chitarra che passa di mano in mano diventa un inno pacifista dal finale retorico, con tanto di citazione di Dylan. Perché Davide, perchè?
Tutto il resto merita di essere incensato, anche se si sente la mancanza di genuinità del passato… d’altra parte prima riempiva i palazzetti dello sport a Vergate sul Membro, ora riempie i locali a New Orleans. Il nostro apre una ruvida valigia piena di blues, malinconia, tremori e danze e quasi sempre il risultato è notevole, se non da brivido, come nella potenza sonora del ritornello strumentale della title-track o nella fusione panica dell’infervorata “Shymmtakula”.
Poi ci sono le contagiose feste pagane di “Nona Lucia”, in cui Davide torna in splendida forma con il suo solido country per chitarre e violino, “Fendin”, tenebrosa vicenda di un traghettatore di streghe e “El baron”, dal ritornello cantabilissimo e appiccicoso. “Il paradiso dello Scorpione” è il veloce e coinvolgente blues di un galeotto indeciso tra la fuga e la tentazione (quale? Scopritelo!), ma la prova migliore arriva circa a metà disco, dopo la rossa marzialità de “El fantasma del Ziu Gaetann” (inizialmente pensata per far giocare i figli).
Stiamo parlando di un luogo situato tra sognanti steel guitar alla Neil Young e rimorsi che non vanno via, stiamo parlando de “Il libro del Mago”. Fatta di scèndra, scìla e foemm, ovvero cenere, cera e fumo, la canzone racconta di un mago anziano e un po’ fasullo che negli ultimi istanti della sua vita ricorda “quando avevo tredici anni, in braccia all’universo e non nella sua prigione”; tra Voodoo, Mandragora e Conte di Cagliostro “la gente vuole sapere cosa c’è nel gerlo del destino, fissati con il domani e intanto il tempo gli sfugge dalle mani, e allora tutti dal Mago a rompere le palle, il mondo non gli va più bene e io devo cambiarlo, o fingere di farlo…”. Un po’ pentito, un po’ sclerotico il Mago capisce che “adesso che giro la carta, e istupidito guardo nella mia sfera, ho capito che la Magia ce l’avevo in tasca quando non sapevo nemmeno cosa fosse…”, offrendoci non poche riflessioni tra chitarre dalle mani tremanti e accordi puliti come lacrime. Se è scontato dire che il tempo scorre sempre più veloce, non è assolutamente scontato provare a vedere le cose dal punto di vista di qualcuno per cui il tempo non passa mai.
Il Davide lo fa nell’ultimo brano, “Il prigioniero e la tramontana”, poesia acustica, utile in questi tempi di discussioni sulla pena di morte, da cui traggo la frase che chiude la recensione e riassume l’essenza inquieta del disco: “È un viavai di fantasmi e mi domandano tutti perché”.
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