R Recensione

7/10

Davide Van De Sfroos

Akuaduulza

Chi è Van De Sfroos ormai lo sanno un po’ tutti, dalla Sardegna al Salento, dal Giappone a New Orleans. Cantautore dialettale proveniente dal Lario affetto da una profonda curiosità per tutte le forme musicali che esulano dal semplice folk nostrano: nativi americani, jazz, Springsteen, punk, mescolati a musica da balera, De Andrè e taranta sono la formula vincente del nostro menestrello, senza scordare i suoi testi poetici e tragicomici. Dopo “Breva e Tivann”, “E semm partii…” (disco che l’ha portato al successo e a mio parere miglior episodio della sua discografia) e “Laiv”, registrato dal vivo come si può capire dal gioco di parole, il 2005 vede l’uscita di “Akuaduulza”, forse la meno convincente tra le prove studio.

Per non essere frainteso vorrei precisare che con meno convincente non intendo dire che l’album è pessimo ma che preso nella sua interezza rischia di deludere. “Akuaduulza” viene costruito come un concept album “dark” su streghe, fantasmi, boschi, prostitute e, ancora più oscuro, animo umano. Il fil rouge “halloweeniano” ha sicuramente una facile presa sui giovani “alternativi”, ma il modo in cui Davide tratta il tema non è banale e nemmeno trito.

Togliamoci subito il dente affrontando i punti deboli, ovvero quei brani che risultano dispersivi per la continuità narrativa e musicale. In apertura c’è uno di questi, e partendo male si rischia di compromettere l’assimilazione dell’opera. “Madame Falena”: ballo tzigano e spagnoleggiante dai ritmi indiavolati, troppo lungo, alla lunga irritante. “Caramadona”: ripetitivo lamento sostenuto da decise pennate acustiche. “Preghiera delle Quattro Foglie”: autocompiacimento sciamanico, ennesima poesia per chitarra e voce, il Davide ne ha partorite di migliori, una su tutte “Ventanas”.”Il corvo”: chi aveva bisogno di un hard rock ridondante tra feedback e voce rabbiosa in italiano? “Rosanera”: la storia di una chitarra che passa di mano in mano diventa un inno pacifista dal finale retorico, con tanto di citazione di Dylan. Perché Davide, perchè?

Tutto il resto merita di essere incensato, anche se si sente la mancanza di genuinità del passato… d’altra parte prima riempiva i palazzetti dello sport a Vergate sul Membro, ora riempie i locali a New Orleans. Il nostro apre una ruvida valigia piena di blues, malinconia, tremori e danze e quasi sempre il risultato è notevole, se non da brivido, come nella potenza sonora del ritornello strumentale della title-track o nella fusione panica dell’infervorata “Shymmtakula”.

Poi ci sono le contagiose feste pagane di “Nona Lucia”, in cui Davide torna in splendida forma con il suo solido country per chitarre e violino, “Fendin”, tenebrosa vicenda di un traghettatore di streghe e “El baron”, dal ritornello cantabilissimo e appiccicoso. “Il paradiso dello Scorpione” è il veloce e coinvolgente blues di un galeotto indeciso tra la fuga e la tentazione (quale? Scopritelo!), ma la prova migliore arriva circa a metà disco, dopo la rossa marzialità de “El fantasma del Ziu Gaetann” (inizialmente pensata per far giocare i figli).

Stiamo parlando di un luogo situato tra sognanti steel guitar alla Neil Young e rimorsi che non vanno via, stiamo parlando de “Il libro del Mago”. Fatta di scèndra, scìla e foemm, ovvero cenere, cera e fumo, la canzone racconta di un mago anziano e un po’ fasullo che negli ultimi istanti della sua vita ricorda “quando avevo tredici anni, in braccia all’universo e non nella sua prigione”; tra Voodoo, Mandragora e Conte di Cagliostro “la gente vuole sapere cosa c’è nel gerlo del destino, fissati con il domani e intanto il tempo gli sfugge dalle mani, e allora tutti dal Mago a rompere le palle, il mondo non gli va più bene e io devo cambiarlo, o fingere di farlo…”. Un po’ pentito, un po’ sclerotico il Mago capisce che “adesso che giro la carta, e istupidito guardo nella mia sfera, ho capito che la Magia ce l’avevo in tasca quando non sapevo nemmeno cosa fosse…”, offrendoci non poche riflessioni tra chitarre dalle mani tremanti e accordi puliti come lacrime. Se è scontato dire che il tempo scorre sempre più veloce, non è assolutamente scontato provare a vedere le cose dal punto di vista di qualcuno per cui il tempo non passa mai.

Il Davide lo fa nell’ultimo brano, “Il prigioniero e la tramontana”, poesia acustica, utile in questi tempi di discussioni sulla pena di morte, da cui traggo la frase che chiude la recensione e riassume l’essenza inquieta del disco: “È un viavai di fantasmi e mi domandano tutti perché”.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 4 voti.
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Alfo 6/10
cielo 8/10

C Commenti

Ci sono 5 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Soulsecco (ha votato 5 questo disco) alle 16:18 del 6 luglio 2007 ha scritto:

Concordo

Concordo quasi in pieno con la tua recensione, nel senso che hai individuato tutti i (molti-troppi) punti deboli del disco ma sei stato un po' "desFan" nell'attribuzione delle stellette.. non ti biasimo: sentire cantare nel proprio dialetto non solo ricarica le parole di significato (come del resto avviene normalmente con una lingua straniera) ma le arricchisce di una familiarità ancora più profonda (del resto tutte le sfumature di una lingua sono artefatto e artefice del modo di sentire di un popolo).

"Quaand gh'eri tredes'ann gh'eri anca tredes coer" , quando avevo tredici anni avevo anche tredici cuori. Non parla stavolta Davide di un popolo. E nemmeno dell'umanità intera. Parla di me. L'unico e solo me che esista (ma dighel a nisun).

feelglass alle 5:56 del 7 luglio 2007 ha scritto:

RE: Concordo

Grazie del commento, mi fa sempre piacere trovare commenti come questo. Le stellette non le ho decise io

Alfo (ha votato 6 questo disco) alle 16:39 del 14 luglio 2007 ha scritto:

la strada giusta

Alfo (ha votato 6 questo disco) alle 16:49 del 14 luglio 2007 ha scritto:

la strada giusta

Davide è partito aprendosi una nicchia, un varco, qui, sul lago, facendo riaffiorare tutta la tradizione, la cultura popolare (qui) dimenticata sotto la polvere e lo smog e, inevitabilmente, radicandosi e radicando il suo pubblico ai propri luoghi, al proprio passato, ridando valore ai sentimenti semplici e spontanei che l'avevano perso.

Fortunatamente non si è fermato lì.

Con garbo, coltura e perizia è stato capace di andare avanti, di sperimentare, di non fermarsi al rito, che avrebbe rappresentato una perdita di genuinità ancora più grande, inaccettabile, errore peraltro diffuso tra chi canta le radici. E quindi in fondo ci sta, ci sta anche un mezzo passo falso, se fatto per continuare ad Essere, a divenire, senza arrestarsi.

ggiordani (ha votato 9 questo disco) alle 17:04 del 28 aprile 2009 ha scritto:

no, non è un capolavoro. lo sarebbe stato se non ci fosse stato poi pica, che gli ha rubato il posto.