Jester At Work
Lo-Fi, Back To Tape
Un aspetto, sopra ogni altra cosa, innervosisce. Ovvero, che le probabilità di ottenere un’effettiva divulgazione di questa musica sono pari al disperato tentativo di non citare sempre i soliti noti per richiamare influenze, citazioni, riferimenti dentro le canzoni di Antonio Vitale, il trentacinquenne chitarrista pescarese che si cela dietro allo pseudonimo Jester At Work. Ci si prova, a dire la verità, con caparbia, puntando sulla concreta bontà delle canzoni, sulla polverosa e scalcagnata atmosfera che la scelta di registrare “Lo-Fi, Back To Tape” su nastro magnetico (!) inevitabilmente suggerisce (per chi ancora se lo ricorda, persino un pezzo da novanta dell’american way of life come Emit Bloch, l’anno scorso, utilizzò un dittafono), sul significato simbolico che improvvisamente assume il depauperamento di mezzi e tecnologie, come sincero ritorno alle radici. Poi arriva la consapevolezza che questi termini, spesso molto impropriamente, sono utilizzati in decine di recensioni simili, magari per dischi mediocri, discretamente pubblicizzati, antimoderni nella teoria e modernissimi nella pratica. Tutto si confonde e perde di significato specifico. Una bella matassa da sbrogliare, musicista e recensore in prima linea.
Rinunciare, mai: è il segno che contraddistingue la più profonda viltà. Ed allora, per i tre o quattro fortunati che sceglieranno di leggere queste poche righe, diremo che, lontano dalle frivolezze e al riparo dal chiasso, Jester At Work ha realizzato uno di quegli album di cui, ancor prima di cominciare, si conoscono a memoria strofe, ritornelli, bridge, accordi, melodie, variazioni, sovrapposizioni strumentali, eventuali divagazioni individuali. Persino la voce, specie dopo la sbornia cantautorale in salsa stars&spangled con cui si sono misurate personalità tra le più svariate in campo musicale, non suona certo nuova: baritona, profonda, avvolgente, a tratti cavernosa, sicuramente espressiva. Come presentarsi al Guthrie Pub since 1912 ed ordinare una pinta di Vedder, un quarto di Lanegan, uno shot di Dylan e mezzo litro di Cash. Capite ora cosa intendevo, quando parlavo di difficoltà intrinseche al genere? Aggiungete l’aggravante capitale: Vitale è italiano. Ergo – per quale legge causale non è dato saperlo – non può fisiologicamente raggiungere i suoi pari americani. È svantaggiato in partenza. Uno Zanardi tra un Bolt e un Gay.
Se continuate a leggere o, meglio, mollate la recensione per cercare la materia prima direttamente sul web, scoprirete invece che “Lo-Fi, Back To Tape” è un bellissimo disco. Folk, country, pre-blues, songwriting vecchio o vecchissimo stile, stomp surrealmente waitsiani, accenni di musica nera, sporcizia sonora, impurità tecniche, chitarra, basso, armonica, rare percussioni. Quanto basta per chiudersi in casa settimane intere ed imparare a strimpellare una sei corde sopra a suddetti schemi. “Resurrection”, nel suo susseguirsi di dominanti e nell’alternanza tra accordi in minore e in maggiore, disegna una storia paesaggistica mozzafiato. “Bogs Bubble” spezza uno spoken word idilliaco con sudice pentatoniche da bordello, “A Brand New Motorbike” aggiunge coretti di rinforzo e un indiavolato ritmo r’n’r, “Sphinx” perviene ad insuperate vette di lirismo introspettivo con un mesmerizzante blues alla Leadbelly, “Right Words” è una preghiera tribale con vaghi e salvifici accenni gospel, “The Worst Cowboy” una piccola favoletta segmentata da voce catramosa e cappello calcato in testa, “Invisible Man” incrocia due voci e le proietta sullo sfondo di un’ideale ghost story fatta di umorismo nero e acerbe trame di archi.
Ad ognuno secondo i suoi bisogni, per ognuno secondo le sue capacità. Che poi, a pensarci, è veramente il tratto caratteristico della bella musica.
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