R Recensione

7/10

Essie Jain

We Made This Ourselves

Un crepuscolo d'autunno, la luce bruna che declina soffiando freddi accenti sulle sillabe sgretolate del breve pomeriggio. L'eco dell'inverno che si preannuncia, ed uno stretto bisbiglio tra le note d'acciaio della pioggia notturna.

E' strano ascoltare un disco come questo, esordio della cantautrice Essie Jain, inglese trapiantata a New York, mentre il sole, immobile sulle tende abbagliate, arabesca il pulviscolo dilatando ancora di più lo stupore di questa lenta e precoce primavera. Un ascolto che suscita il falso ricordo di un inverno che non c'è stato, ma anche di paesaggi mai visti ed ombre mai incontrate, boschi e strade di campagna in cui ci sembra di essere passati nell'infanzia ma che in realtà fanno parte di quel mondo inaccessibile che abbiamo sempre immaginato dietro gli specchi.

La Ba Da Bing Records, dopo averci regalato alcune perle di intenso ed alto artigianato musicale (come non ricordare "Gulag Orkestar"?), aggiunge alla collana questo bel debutto. A colpirci è innanzitutto la grafica, come al solito elegante e curata, e, una volta immersi nel piccolo mondo sonoro che l'album ci dischiude, la delicatezza e la sobria misura della voce di Essie, fragile ma sicura, apparentemente timida ma pronta a confrontarsi con modelli irraggiungibili che riverberano raggi duraturi anche sugli arrangiamenti, caratterizzati da una felice varietà ma completamente asserviti ad un canto quasi sempre uguale, privo di slanci e fatto di sfumature impercettibili. Musica da camera, introspettiva e minimalista, suonata in una piccola stanza ottocentesca dalle tende pesanti e odorosa di fiori finti. Insomma, il contrario della teatralità esibita e della stralunata originalità che ci aveva colpiti nell'ultimo lavoro di Joanna Newsom.

"We Made This Ourselves" è un disco ben fatto, ben suonato, piacevole da ascoltare. Una piccola stanza, abbiamo detto, in cui entrare in punta di piedi per sistemarsi in silenzio in un angolo scuro, dimenticando cosa c'è dietro i tendaggi di velluto, senza timore di perdere ad un tratto la nozione del tempo oppure smarrirsi nei corridoi del "già sentito" alla ricerca di suggestioni passate. Questo perché i dieci brani dell'album occhieggiano in maniera evidente a modelli importanti, arrivando addirittura a riproporli in maniera quasi calligrafica. E' il caso, ad esempio, di "Sailor", un pezzo per voce, armonium e archi che ripropone le sonorità di quel grande capolavoro che è "The Marble Index" di Nico.

Le stesse vicissitudini biografiche dell'autrice suggeriscono ulteriori fonti e confronti: sin dall'inizio ("Glory" ed "Haze") sembra di ascoltare una nipotina di Nick Drake che si accosta a songwriters e interpreti americane come Joni Mitchell o Susan Christie ("Understand", "Talking") oppure, addirittura, a Leonard Cohen ("Disgrace") e Neil Young (il pianoforte in "Loaded").

Un disco non originalissimo, quindi, volutamente rétro ma ricco di suggestioni, poetico ed ispirato. E sicuramente emozionante.

V Voti

Voto degli utenti: 9/10 in media su 1 voto.
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