Iron and Wine
The Shepherd's Dog
La musica di Sam Beam (e l’imago mundis di cui è tesoriera) cresce assecondando il ritmo naturale delle stagioni, cadenzata dai fremiti del creato, nel palpito tenero dei germogli o nel crepitio delle foglie bronzee di senescenza. Cantore d’angusti ripostigli domestici al pari di assolate distese senza confini: solai rivestiti di sughero, illuminati da un lucernario col vetro smerigliato e praterie luccicanti di pioggia o, nel meriggio, bruciate da odorosi effluvi di clorofilla. Ferro e vino, contenuti semplici e universali. Come l’inesausta volontà dell’uomo, sempiterno anelito di vita e di piacere. Lo specchio di una serenità bucolica che riflette la parte migliore dell’ “ol’ south-east”, la minoranza accogliente e rumorosa (certi bisbigli, si sa, sono fragorosi) che non legge il “New Yorker” e non finirà mai sulla copertina del “Time” (al massimo su quella del “National Geographic”) ma di cui ci si ricorda, improvvisamente, ad ogni elezione presidenziale, quando i suoi voti diventano determinanti per assegnare gli scranni più contesi al senato e decidere chi siederà o no nella Sala Ovale (chiudiamo qua la digressione perché sennò ripenso ai tailleur lilla e pervinca di Laura Bush, mi si rivolta lo stomaco e corro in bagno a vomitare).
Un ciocco di legno che brontola nel caminetto e la Bibbia aperta sul comodino intarsiato. L’intimo, morigerato folk casalingo di Mr. Beamnon nutre l’assillo di misurarsi con il correlativo oggettivo rappresentato dalle sonorità del momento, ma preferisce cercare nei motivi familiari, nei barbagli d’emotività che riverberano dentro di se, la forza di andare avanti sulla strada accidentata dell’ispirazione. Dopo due album votati all’estetica della povertà e della sottrazione (The creek and the cradle, 2002 e Our endless numbered days, del 2004, entrambi su Sub Pop) e nonostante si siano sprecate su di lui le similitudini più disparate (da John Denver a Elliot Smith, passando per Neil Young, Simon & Garfunkel, Nick Drake e addirittura John Fahey), stavolta l’uomo dalla tricosi arborea nascosto dietro la sigla Iron and Wine, decide di modificare la rotta pur rimanendo sostanzialmente fedele alla propria linea stilistica. Complici forse le collaborazioni con gli amici Calexico e Califone, nel nuovo The Shepherd’s Dog (Sub Pop, 2007), le oblique sfumature old time music si allargano in campiture insolitamente vaste e ricercate: la voce si fa più che mai diafana e rarefatta da chorus e riverberi, nei solchi smossi dall’aratro della tradizione attecchiscono spore di psilocybe chiaramente sixties per ascendenza, i ritmi corposi e sincopati (raga, latino-americani, creoli) ammutoliscono impercettibili divagazioni quasi “droniche”.
C’è il boogie pentecostale di Pagan angel and a borrowed car e The devil never sleeps, la psichedelia arcaica e “primitivista” di White tooth man (sitar e pow wow pellerossa) o quella “pizzicata” e bluegrass di Love song for the buzzard (sitar, harmonium e accordion). La bossanova per banjo e kazoo di House by the sea e Innocent bones (marimbas e cantato alla “Donovan & Garfunkel”) si accomoda fra le filastrocche honky tonk Resurrection e Flightless bird and american mouth (amorevole, edificante valzer per bambini). Poi ci sono gli episodi isolati, i picchi di creatività, i passi in punta di piedi verso il cono d’ombra dell’ignoto: la deliziosa Carousel, ad esempio, voce schermata dal vibrato e minuscoli droni nell’epilogo, in cui la staccionata della farm di Sam sembra quasi invadere i terreni di Sufjan Stevens. Il flamenco di Boy with coin, con tanto di nacchere e lampeggianti “laid” elettrici (slide e spilli di larsen). E, ancora, i due capolavori: Wolves (song for the shepherd’s dog), un funky-dub mannaro, fosca pastorale che riesuma le “rogazioni” della liturgia dei morti, sorta di preghiere laiche e solenni con cui in campagna si stornavano la minaccia delle bestie feroci e i temporali incombenti; Peace beneath the city, dissonante, notturno, limaccioso blues di insegne cigolanti e barboni che cullano vuoti di T-Bird, un sonnambulo a spasso per una città che assomiglia ad un animale scuro e affamato, il fiato sospeso in aria, pronto ad inghiottirci.
Un disco superbo. E d’ora in avanti Iron and Wine sarà l’unico termine di paragone per Sam Beam e viceversa, scommettiamo?
Tweet