R Recensione

7/10

Jose Gonzalez

In Our Nature

Quando parte How Low, traccia d’apertura di In Our Nature, secondo disco di Jose Gonzalez, l’impressione di già sentito è immediata, intensa e stranamente sfocata: la voce di Gonzalez riaccende contemporaneamente nella memoria una schiera di impolverate lampadine del passato prossimo e di quello remoto.

Potreste averla infatti già sentita risuonare nei dischi di Zero 7 e Savath & Savalas, se siete cultori dei versanti indie dell’elettronica, ma potrebbero anche accalcarsi nella mente i nomi dei grandi cantautori degli anni’70, James Taylor su tutti, i gorgheggi di John Martyn, gli affreschi minimali dei Red House Painters (via Paul Simon), gli ipnotici fraseggi e arrangiamenti da camera di Nick Drake, le armonie del West Coast Sound e le calde aperture vocali di Jose Feliciano (ebbene si).

Tanta “roba”, ne conveniamo, influenze mai sotto l’eccellenza, comunque: e sembrano aver apprezzato la cosa in Svezia, terra d’origine di Gonzalez, (nonostante la ragione anagrafica faccia pensare altrimenti), dove il cantautore è divenuto, col debutto Veneer, caso nazionale: il disco si faceva notare, tra le altre cose, anche per una splendida cover acustica di Heartbeats, dei Knife.

Esperimento che Gonzalez decide di bissare, anzi, di rilanciare, anche con In Our Nature: fa bella mostra di sé, proprio a metà del disco, una splendida cover di Teardrop (Massive Attack), che plasma il dub originario in un mantra acustico che renderebbe orgogliosi John Fahey e Nick Drake.

Solo la punta dell’iceberg di un disco che vive nella dimensione aurea di un cantautorato sofisticatissimo ed etereo, sempre sollevato a qualche metro da terra, ma che non manca di mostrare a sprazzi la sua origine folk, terrena e sanguigna, consentendogli di evitare le derive asettiche del suo contemporaneo (e omologo) Findlay Brown.

Dove quest’ultimo risultava infatti eccessivamente derivativo e compassato, Gonzalez sa aggiungere sapienti pennellate di colore attraverso una voce calda e duttile e una capacità di scrittura all’altezza dei nomi scomodati in apertura: con i dovuti distinguo, certo, e tenendo conto che un filo di monotonia serpeggia comunque tra le pieghe del disco.

Resta il fatto che i fasti dell’esordio vengono abbondantemente bissati e che non mancano pezzi in grado di lasciare il marchio: su tutti le suggestioni roots di Killing For Love, l’incontro tra bossa e west coast della titletrack, la delicatissima passeggiata nickdrakiana di The Nest e la splendida Cyvling Travilities, degna di un Paul Simon d’annata e posta a suggello del disco.

Consigliato a chi è convinto che dalla Svezia arrivi solo twee pop e a chi va a dormire tutte le sere e si sveglia tutte le mattine ascoltando rapito Bryter Layter.

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