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R Recensione

9/10

Matt Elliott

The Mess We Made

Uno spartiacque. Questo appare chiaramente essere “The Mess We Made”, nel percorso artistico di Matt Elliott. C’è un prima, a nome Third Eye Foundation, fatto di campionamenti, drum&bass, elettronica, trip hop (ma anche di tanto altro che non compete a questa recensione svelare).

E c’è un dopo, fatto di ulteriori tre dischi a nome Matt Elliott (“drinking songs”, “failing songs”, “howling songs”), una vera e propria trilogia neo-folk, tradizionale, in cui la componente elettronica viene, e di molto, limitata. Nel mezzo di questi due percorsi musicali così diversi, c’è questo disco del 2003, in cui Elliott da una parte ricalca, almeno in parte, il solco degli ultimi lavori a nome Third Eye Foundation, e dall’altro anticipa le soluzioni acustiche, folk, cantautoriali, dei lavori a suo nome che seguiranno. Soprattutto, nell’unire questi due mondi musicali così distanti, quasi antitetici, crea una musica ibrida, coinvolgente, peculiare, mai più replicata.

L’incipit di “Let us break” è eloquente, con Elliott che proditoriamente deforma il testo: “before this shit there was shit and before that shit there was shit, it’s in the soul and in the bones that we are still a long way from our home”. Lampi di dolore in una voce malata, cupa e fortemente distorta. Una trama musicale altrettanto deviata. Una voce femminile (quella di Sabine Chaouch) a creare ulteriore disequilibrio. Una tromba, un piano, presi chissà dove. Uno degli inizi più depressi ed emozionanti che io ricordi.

La seconda traccia, “Also ran”, rincara la dose. La voce di Elliott è scura, deformata, stratificata: una presenza plumbea e multiforme tra i tocchi di piano, i campionamenti elettronici e gli inserti acustici. Un dialogo tra malati di mente. La materializzazione in musica del senso di panico, della perdita di lucidità. Quando, finalmente, la lunga coda elettronica pare salvarci dal senso di oppressione, irrompe d’improvviso “The dog beneath the skin”, cambiando nuovamente registro. Il senso di straniamento viene amplificato. Il piano disegna una melodia austera, con un contrasto tra toni alti e bassi che morbosamente seduce.

Il lavoro sulla voce di Elliott fa risaltare il senso di precarietà: trattata, manipolata, resa ancora più inferma dalle distorsioni e dai reiterati allungamenti, è elemento fortemente destabilizzante. Una deriva emozionale, tra lampi di puro ritmo e tocchi di piano e tromba. “Gotard’s syndrome”: ancora tastiere e voce trattata, distorta. Sensazioni di confusione, alienazione. Un testo che non esiste. Un loop ondivago. Un’opera di costruzione certosina, per un risultato ulteriormente alienante e stordente.

“The mess we made”: la voce è ora quasi un sussurro, un anelito di umanità in mezzo alla glaciale classicità della musica. Poi l’innesto dei campionamenti elettronici all’unisono con la voce che si deforma. La sospensione del tempo e dal tempo. “The sinking ship song”, anticipa i cori ubriachi che faranno la fortuna dello splendido “Drinking songs”, grazie all’aiuto del fantomatico “The drunk ensemble of Chancelade”. “End” è un breve strumentale, sospeso tra tastiere liquide, basso ed elettronica. Musica per una danza tra fantasmi.

La conclusione è affidata a “Forty days”. Più trame musicali si sfiorano, si alternano, si accavallano. Piano, chitarra e pure violoncello, in una complessa e prodigiosa alchimia melodica. Poi l’intervento di una flebile impronta vocale femminile, velatamente angelica, a conferire un senso quasi estatico, di sospensione temporale, all’insano rincorrersi delle melodie. I campionamenti elettronici, anche in questo caso, fanno la loro comparsa nella coda finale, a rendere tutto scarno e lineare. Un pezzo articolato e complesso. Un finale esemplare per uno dei dischi più rilevanti, a mio parere, di tutto il decennio. Un artista dalla sensibilità musicale enorme che si libera dai residui vincoli del suo passato, trovando una nuova dimensione, creando una nuova forma espressiva.

Un mondo interiore che si espone. Ascoltando questo disco viene naturale chiedersi il perché Elliott abbia tenuto nascosta la sua voce, così espressiva e profonda, per così tanto tempo.

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Voto degli utenti: 8,6/10 in media su 7 voti.
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Lobo 8/10
creep 8/10

C Commenti

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Lobo (ha votato 8 questo disco) alle 18:45 del 2 marzo 2010 ha scritto:

Un po' ansioso, ma bello ...

FrancescoB (ha votato 9 questo disco) alle 21:17 del 3 marzo 2010 ha scritto:

Per me, il capolavoro assoluto di Matt ed uno fra i dischi più belli ed intensi del decennio. La title-track è da brividi. Recensione puntuale e per me molto ben fatta, complimenti.

fabfabfab (ha votato 9 questo disco) alle 21:43 del 3 marzo 2010 ha scritto:

Condivido tutto. Disco eccellente, sinistro e densissimo.

gull, autore, alle 18:07 del 4 marzo 2010 ha scritto:

Pensavo di essere l'unico a pensare che The mess we made sia l'apice artistico di Elliott (anche se Drinking songs non scherza per niente)!

Filippo Maradei (ha votato 9 questo disco) alle 0:41 del 13 maggio 2010 ha scritto:

Da brividi. Ottima recensione Simone.