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R Recensione

7,5/10

Rome

A Passage To Rhodesia

Jérôme Reuter, la mente e il braccio dei Rome, è uno fra i personaggi più interessanti e controversi dell'ultima era. Degno erede, anche in tale prospettiva, dei sacerdoti neri David Tibet e Douglas P., i padri spirituali, concettuali e musicali della scena neofolk.

Anche i Rome si avventurano dentro gli scenari più inusuali, fra le pieghe della storia. Reuter getta una luce sinistra sulle storie più morbose, sulle vicende dei vinti, sulle sconfitte senza riscatto che nessuno ha avuto il coraggio di raccontare, di rivalutare. Neppure di ricordare. In un'era che, da tanto tempo, ha elevato l'indifferenza a valore supremo, bollando come negativa qualsiasi ambizione cosmica più alta, qualsiasi progettualità che esuli del semplice piacere, dal “qui e ora”, è quantomeno curioso che il lussemburghese continui imperterrito sulla via inquietante tracciata dai suddetti filosofi del male, optando per temi che definire inusuali è riduttivo (io direi più che altro che sono avulsi dal resto dell'Universo conosciuto). In tale prospettiva, è significativa l'ampiezza della confezione cd-boxset artatamente ideata dall'etichetta tedesca Trisol, impreziosita da un secondo “ghost” cd, contenente solo tracce strumentali, e da altri cimeli vari (un dvd, due poster, una moneta, un certificato di autenticità sottoscritto da Reuter in persona). Il tutto, per soli mille esemplari, e per la modifica cifra di 100 euro: un pugno nello stomaco della Storia recente del mercato discografico, ma io direi più che altro una sorta di suicidio commerciale programmato nei minimi dettagli.

Anche la vicenda della Rhodesia in tal senso, è emblematica. Per fortuna Reuter evita di tornare sulle tematiche più inflazionate nel settore, ovvero le atrocità del nazismo, delineate peraltro sempre con una certa ambiguità simbolica, per non dire ideologica: i Death In June adottano un'immagine che definire inquietante è poco - quelle maschere assurde che tolgono il respiro - e celebrano rituali sinistri, anche se poi scendono in Italia per suonare nei centri sociali. Reuter parla d'altro: del colonialismo nel cuore dell'Africa nera, delle ambizioni indipendentiste di coloni bianchi castrate da bande di rivoluzionari foraggiate da tutto il gotha dell'occidente. I Rome hanno il buon gusto e l'eleganza di evitare di schierarsi, limitandosi a raccontare con toni maestosi, malinconici, la sconfitta di un ideale, la storia di “un paese negato”, il tentativo abortito di dare “Addio all'Europa". Il passato è un'altra nazione, intonano voci femminili sinistre nel terrificante finale (la sua quiete apparente in realtà è velata da ghiaccio laminato): la nazione dei vinti che la Storia ufficiale ha deciso di relegare nel dimenticatoio. Sullo sfondo della Grande Vicenda, si stagliano le migliaia di piccole vicende che il resto dell'umanità ha bollato come irrilevanti, e anzi come ripugnanti, come un errore. Rome viaggia a suo modo in direzione ostinata e contraria, ma lo fa senza giudicare: si traveste da vinto e si immerge nel vortice della depressione, sino ad azzerarne ogni energia, portandola allo stadio terminale. Anche lui è uno Sconfitto della Storia.

Il lavoro non si discosta dai parametri cristallizzati nelle numerose opere pubblicate nell'ultimo decennio, ma a mio avviso presenta un quid pluris: una scrittura più distesa, più ampia, meglio definita. Forse meno marziale, più affine al Douglas P. di “But, What Ends When The Symbols Shatter?”, ovvero, più o meno, a un Leonard Cohen che si è improvvisamente dedicato a rituali esoterici. Le ballate che barcollano sull'orlo dell'abisso sono il fiore all'occhiello dell'opera: “A Farewell To Europe”, “Hate Us And See If We Mind”, “Lullaby For Georgie” (come gli altri profeti, Reuter è un maestro nel confezionare titoli sinistri ed evocativi). Non mancano momenti più destrutturati, come l'introduttiva martial-ambient di “Electrocuting An Elephant”, fra i brani più agghiaccianti dell'anno, o la già citata, terminale “The Past Is Another Country”, raggelata da poche note di tastiera e da voci femminili (un pezzo anni '60) che sembrano ricordi lisi e sbiaditi di una breve epoca felice. Non mancano poi campionamenti di sonorità e voci dell'epoca che non fanno che aggravare il clima da apocalisse imminente.

Non si fosse capito, fra i dischi più “potenti”, nel senso migliore del termine, che abbiano visto la luce (?!) nel 2014.

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Voto degli utenti: 8/10 in media su 1 voto.
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REBBY 8/10

C Commenti

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REBBY (ha votato 8 questo disco) alle 10:42 del 24 marzo 2015 ha scritto:

Dice benissimo Francesco nella sua interessante eheh recensione: fra i dischi più "potenti", nel senso migliore del termine, che abbiano visto la luce (?!) nel 2014.

Dopo un breve pausa interlocutoria (il comunque più che discreto Hell money) Reuter ritorna a sfornare un opera di grande spessore, non solo culturale.

Era altamente improbabile (forse non solo statisticamente), ma oramai è assodato: il piccolo Lussemburgo ha dato i natali ad uno dei migliori "cantautori" di quest'ultimo decennio.