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R Recensione

6/10

Rome

Nos Chants Perdus

Qualcosa è cambiato.

Da due anni ormai, a Roma soffia un vento nuovo. Non la nostra purtroppo, per quella ci vorrebbero troppi cambi illustri. Parlo di una Roma esterofila, ora lussemburghese, ora tedesca, ora ispanica, ora francese, cantautorale e neo-folk, diversa perchè sotto l'ala protettiva di una nuova etichetta (la Trisol). Abbandonate certe "violenze" filo-industriali nel suono ("Masse Mensch Material"), superate le (bellissime) eleganze pastorali andaluse ("Flowers From Exile"), solleviamo il mento, dirigiamo le orecchie verso nuova meta.

Tocchiamo la terra del Moulin Rouge, del french-kiss, del glamour, delle lumache e dell'orgoglio; per la verità, l'amico Reuter, per chi non lo sapesse leader dei Rome, aveva già indossato i panni (sporchi) di un francese cantastorie ("Confessions d'un Voleur d'Ames"). Ma dopotutto la scelta geografica proposta a ogni lavoro continua ad apparire sempre più come una figurina simbolica, una cover volutamente di questa o quest'altra lingua, per amor, chissà, di un feticistico interesse del pubblico. Che poi, voglio dire, l'amico Reuter canta sempre in inglese...

Vincolati gli idiomi europei a semplici intermezzi dialogati e poco altro, vediamo se oltre l'apparenza c'è anche una sostanza. Reuter c'è, il che è già gran cosa: voce profonda, calda, sanguigna, distesa su infinite linee di orizzonte, impigliata sempre in un narrativismo impegnato; un Matt Elliott senza ventilatore, meno disperato e più rassegnato nelle tonalità. Non solo rassegnazione, anche guerra, rivoluzioni sociali, ingiustizie, vuoti siderali dell'animo, richieste e doveri della religione, chanson di gesta eroiche dell'uomo-piccolo, chiuso nel suo mondo di cause e conseguenze, insignificante "nell'avere", preziosissimo "nell'essere": queste le realtà che interessano ai Rome.

Sbagliato usare il plurale, i Rome sono Jerome Reuter, sono voce-dipendenti. E qui affrontiamo un bel nocciolo duro: per alcuni infatti, questa voce potrebbe sembrare sufficiente, anzi enormemente riempitiva, mentre per altri (come me) la mancanza di una significativa e variabile stratificazione strumentale, usati solo come accompagnamento, potrebbe farsi sentire molto e lasciar percepire l'opera tutta come incompiuta. Non è un caso se i brani più riusciti e veramente belli, gli ultimi due, sono anche quelli più articolati, quelli che più si distaccano dal classicismo Rome: parlo di "La Rose et La Hache", ballata danzereccia per fisarmonica, sostenuta nel ritmo, romantica per voce e andamento, forse l'unica davvero "francese" dell'intero album; e della successiva "Chanson de Gestes", pizzicata da chitarre all'aria frizzantina, particolare e affascinante nell'atmosfera quasi da sogno che riesce a creare, resa magica, ma questa non è una novità, dalla voce di Reuter e dai sospiri fischiettati di un vento-non vento in lontananza.

Ed è una volta giunti alla fine che ci accorgiamo del più grande difetto dei Rome: Reuter stesso. Il talentuoso lussemburghese diventa servo e tiranno della sua stessa musica, schiavo e despota delle sue canzoni. Un cantautore che pare (ed è) bravo per definizione, che rischia però di non sapersi reinventare in altre forme, di non riuscire a (r)innovare a sufficienza i suoi brani, che accusano segni di monotonia, e soprattutto di non voler osare quasi mai.

Nel resto di "Nos Chants Perdus" il passo indietro si avverte, anzi, il non passo in avanti: esclusa l'intro, le prime tre tracce paiono prese di peso da "Confessions d'un Voleur d'Ames", con i loro giri di chitarra, per certi versi ridondanti, gli accordi dolenti e le ritmiche del tutto simili tra loro ("Les Deracines", "Le Chatiment Du Traitre" e "L'Assassin"). Non brutte canzoni, intendiamoci, ma prive di anima. Buona prova di chanson noir, invece, negli intrecci chitarristici, e di piano sul finire, di "Le Vertige du Vide", così come interessante l'inizio di "La Commune", tra accordi di contrabbasso e controaltari acuti dello xilofono in un semplice "motivetto" ripetuto con grazia nel dipanarsi del brano. Quelle che restano, purtroppo, sembrano davvero "chants perdus", quasi scarti di altri lavori inseriti qua e là come extra in funzione algebrica; da(i) Rome è giusto e sacrosanto aspettarsi molto di più.

 

Qualcosa dovrebbe cambiare.

V Voti

Voto degli utenti: 8/10 in media su 3 voti.
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REBBY 8/10
igizu 7/10

C Commenti

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REBBY (ha votato 8 questo disco) alle 11:46 del 7 ottobre 2010 ha scritto:

La prima impressione, anche per me, è stata quella

del "non passo in avanti", di un lavoro che, diversamente da Flowers of romance rispetto a Masse mensch material, sembra presentare pochi elementi di novità rispetto all'album precedente

(5 atti, non 4; Francia, non Spagna,...). Il fatto

è che la voce di Reuter è davvero "totalizzante",

ma è una splendida voce! Però con il proggredire

degli ascolti anche quest'album entra sottocute e

mi rendo conto che non solo non ci sono brutte

canzoni (magari qualche "intermezzo culturale"),

ma che ce ne sono di splendide. Non solo, la

maggior conoscenza dell'album porta con sè una

scoperta continua di "sfumature" musicali importanti e caratterizzanti che diversificano le

varie canzoni, in un primo tempo percepite simili

tra loro proprio per l'effetto totalizzante della

voce prima accennato (la stessa cosa mi era successa, a suo tempo, ad esempio con Cohen o De

Andrè). Rome si conferma alle mie orecchie una delle proposte cantautorali contemporanee più interessanti. Menzione d'onore per "La vertige du vide", con quel suo inizio enoiano (Another green world?), ma saranno davvero tante, penso, le canzoni di questo album che finiranno nelle mie

miste.