Virginiana Miller
Il Primo Lunedì del Mondo
Di dischi come questo se ne sfornano uno ogni due-tre anni (quando va bene).
I livornesi Virginiana Miller ce ne hanno messi quattro per dare un seguito al piacevole eppur carente Fuochi fatui d’artificio, ma a quei tempi era difficile equiparare lo splendore di un disco come La verità sul tennis, la loro opera-manifesto, tanto memorabile quanto sottovalutata.
Con Il primo lunedì del mondo si ritorna invece, lo si percepisce già ad un primissimo ascolto, a qualcosa di epocale, che nel bene e nel male segnerà (poco importa se adesso o tra 50 anni) la storia della musica italiana. Un’affermazione come questa non può certamente esser fatta con leggerezza, ma chi scrive ha la perfetta consapevolezza che in certi casi ci si possa concedere il lusso di sbilanciarsi serenamente, senza timori di possibili ritrattazioni.
Ci troviamo di fronte ad un’opera solida fin dalle fondamenta, pensata e curata nell’eleganza di ogni dettaglio, nel suo perfetto equilibrio lirico-compositivo, nel sapiente dosaggio di suoni e accenti, nei mille microclimi dipinti a tocchi piccoli e netti in tinte ora tenui e umbratili ora accese e decise, un nuovo caleidoscopico viaggio tra tutte le sfumature del quotidiano sapientemente tratteggiate dall’occhio attento e sognatore di Simone Lenzi.
Si comincia subito bene con A frequent flyer, un intro affidato agli archi che ben preannuncia l’eleganza di quest’opera, un’eleganza dai toni anche vigorosi, quando il suono si irrobustisce ed esplode nella seconda parte del pezzo; anche la scelta del cantato in inglese non disturba, anzi auguriamo che apra al gruppo le porte della notorietà almeno all’estero, donando quel meritato riconoscimento che la patria matrigna non si decide a tributargli.
Ci si imbatte subito dopo in uno degli episodi più intensi, vera colonna portante del disco, Lunedì. L’atmosfera si fa lieve e trasognata, è l’importanza di un lunedì qualunque che diventa improvvisamente Il primo lunedì del mondo, una rinascita, un chiudersi la porta alle spalle e ricominciare, perché c’è sempre tempo per farlo. Notevole anche in questo caso l’apporto degli archi che impreziosisce l’oramai consolidato e personalissimo stile della band.
Acque sicure incendierà il pubblico dei live, la ritmica serrata fa da sfondo ad una vita in bilico su una tavola da surf, una vivida fotografia del nostro tempo scandito da “questa rabbia, questa sabbia in bocca, questi amari lecca-lecca”, è l’amaro e continuo rialzarsi e ricadere e andare “giù, oltre le acque sicure”, e il sentirsi come “resti di un naufragio” e lottare per restare a galla in un peggio senza fine.
La risposta è la ballata d’amore che tutti vorremmo sentirci dedicare, un dolce abbandono, un delicato desiderio tra frammenti di piccoli gesti quotidiani, silenzi, ricordi.
Segue L’angelo necessario, il testo forse più enigmatico dell’album, presenze-paraurti (forse tutte interiori?).
Si giunge così al pezzo più accattivante dell’album, L’inferno sono gli altri, altro perfetto fermo immagine di quest’era di mostri dai mille volti e chimati spesso social network, questo enorme calderone fatto di “occhi, sguardi, volti, mani, parti, corpi, pezzi, brani, bocche, lingue, versi, suoni” , un imbuto cosmico, un inferno di piccoli spazi in cui “ognuno ha qualcosa da dire” e poco da ascoltare, parola d’ordine: alienazione.
Tocca da vicino e commuove la funambolica esitenza di un’anima affamata del nulla che le pressa accanto in Oggetto piccolo (a), quel piccolo, inutile oggetto che non salverà l’“anoressica piccola (a)”.
A smorzare la grevità dell’atmosfera ci pensa l’easy listening di Cruciverba, placida oasi riflessiva di pensieri di una qualunque giornata d’agosto, seguita dall’ironia scanzonata de Il presidente.
A dignitosissima conclusione due ulteriori perle: La carezza del papa, un dialogo di vissuti che intrecciano sconfitte, illusioni, delusioni, paure, promesse mancate, rimpianti, voglie di rivalsa, fallimenti, con la televisione che ricorda di portare ai nostri figli la carezza del papa “ma anche un calcio nel culo va bene, anche quello ogni tanto fa bene, come segno di amore sicuro, di contatto e calore animale senza tante parole”.
E' la pioggia che va è invece un brano già noto per chi ha visto "Cosmonauta", ultimo film di Susanna Nicchiarelli. La band livornese si cimenta qui nella rilettura di un classico anni 60 dei Rokes regalandoci e regalandosi un insolito sguardo lungimirante, come piccola utopia necessaria a conclusione di un percorso tanto mirabile quanto travagliato.
Con questo quinto album in studio i Virginiana Miller confermano (se ancora ce ne fosse bisogno) il loro talento cantautorale ironico e visionario e si consacrano come pietra angolare del panorama nostrano.
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