Daniel Johnston
1990
Se ci fermiamo per un attimo a riflettere su Daniel Johnston ci verranno le vertigini, perché siamo davanti a un fenomeno inclassificabile eppure quintessenzialmente americano.
Sulla versione inglese di wikipedia si trova una pagina che vorrebbe definire a grandi linee la outsider music e i primi nomi che cita sono quelli di due menestrelli texani: Jandek e, appunto, Daniel Johnston.
Il problema è che ogni etichetta mal si adatta a questi isolazionisti impegnati a borbottare del proprio ego da quasi quattro decenni.
Daniel Johnston, in particolare, vanifica ogni nostro tentativo di incasellarlo: nasce in California nel 1961, sembra affetto da un grave disturbo bipolare, vive con i genitori in un paesino sperduto nel deserto texano, nutre una passione incontenibile per i film horror e per lo sci-fi degli anni '50 e pubblica opere sconnesse e a-musicali, che definire amatoriali è quasi un complimento, sin dai primi anni '80. All'inizio il suo nome circolava solo nella ristrettissima cerchia di appassionati locali che si trovavano tra le mani, spesso in modo del tutto casuale, qualche sua musicassetta.
Registrata nella forma più semplicistica e dilettantesca possibile: nell'epoca in cui la produzione opulenta iniziava a spadroneggiare, il suo solipsismo anoressico rappresentava già un discreto quanto naif e inconsapevole atto di ribellione contro il mainstream pop. A inizio anni '90 una maglietta indossata da Kurt Cobain lo omaggia in mondovisione e allora la sua storia un pochino cambia. Non che a lui interessi più di tanto: non ha cambiato di una virgola il proprio stile di vita (salvo il supporto di un'etichetta misteriosa e artistoide, la Shimmy Disc fondata da Kramer nel 1987) e sembra completamente disinteressato, anzi schokato dall'esistenza stessa di un pubblico internazionale che cerca di decifrare le sue opere, oltre che dalla stima di gente come Tom Waits.
Ora, Daniel Johnston è un fenomeno possibile, anzi pensabile solo negli Stati Uniti d'America. Un po' come l'hardcore punk o, meglio ancora, lo shambling rock che sotto la guida di Calvin Johnson - imperversava dalle parti di Olympia (tranquilla cittadina sperduta nello stato di Washington) nello stesso periodo.
Forse in Texas, tra anni '80 e '90, esistevano decine di cantautori stralunati come Jandek o Daniel Johnston, ma a me piace l'idea che fossero (e restino) un avvenimento unico: mi sembrano letteramente scesi da un altro pianeta, principalmente allo scopo di far traballare ogni certezza in ordine a cosa si possa fare con la musica (in Italia è impensabile un approccio di questo tipo: da noi predominano professionismo, perfezionismo, il culto per una solida formazione accademica e un chiaro scetticismo nei confronti di forme di espressione tanto naif, con le immancabili eccezioni naturalmente; ma ecco, nulla che assomigli a Daniel Johnston).
È probabile che gran parte del fascino del cantautore texano che con quest'opera, datata 1990, realizza il suo disco più interessante e compiuto, uno dei pochi che si possano ascoltare in una stanza senza costringere i non cultori a scappare dopo trenta secondi dipenda proprio dai suoi limiti: ma è straordinario come la sua capacità espressiva trovi il modo di travalicare l'incompetenza tecnica, e anzi la usi come trampolino per la gloria; accade sovente quando l'urgenza e un talento specifico (nel caso di Johnston, quello che gli consente di inventare melodie semplicissime eppure toccanti, così come di trasformare ogni brano nell'epitome di due o tre stadi emotivi tra loro antitetici, o di scovare la poesia nei luoghi più impensabili) si trovano a operare un territori tanto circoscritti, a giocare con un bagaglio tecnico che chiunque altro troverebbe castrante (o forse anche ridanciano).
"1990" ha qualcosa di ultraterreno: la sua voce ridicola e prepuberale, se entra in sintonia con il tuo mood, ti tocca in modi e forme che preferiresti evitare, sembra sondare il tuo subconscio. Tanto più quando sembra stia per scoppiare in un pianto, o quando urla in modo grossolano, steccando clamorosamente.
Gli spunti melodici sono uno più bizzarro e straniante dell'altro: "Some Thing Lasts a Long Time" è una ninnananna che arrangiata da un professionista potrebbe forse scalare tutte le classifiche del mondo, e che qui invece suona sinistra, distante, ovattata; "True Love Will Find You In The End" non è da meno, con il suo ritornello elementare, quasi il ricordo liso e sbiadito di un'immaginaria infanzia felice. I tre minuti abbondanti di "Funeral Home", cantati in coro con un pubblico incredulo e divertito, sono forse il momento più alto, il capolavoro dell'ambivalenza emotiva di Johnston (ride o piange? Il dubbio rimane). Il coro finale, registrato in una chiesa con tanto di bambini che piagnucolano in sottofondo, è il degno capitolo conclusivo di un disco che sembra assomigliare soltanto a sé stesso.
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