Leonard Cohen
Old Ideas
I love to speak with Leonard/ He’s a sportsman and a shepherd/ He’s a lazy bastard/ Living in a suit (…)
Non è affatto elegante autocitarsi, lo so, ma nella recensione di “Songs Of Leonard Cohen” avevo già cercato, in qualche modo, di mettermi a nudo e spiegare il mio tortuoso e simpatetico (per quanto del tutto immaginario) rapporto con il grande cantautore canadese. Chi avrà la (biblica) pazienza di andarsela a rileggere potrà facilmente tirare le proprie conclusioni riguardo alla mia imparzialità nei suoi confronti, se sia o meno una persona attendibile nel giudicare il suo nuovo album. Per gli altri riassumo il mio punto di vista brevemente: parlare di Leonard Cohen (o “con” Leonard Cohen) per me è qualcosa che va aldilà della musica o della critica musicale. È un po’ come parlare di uno di famiglia, di un padre putativo o di un vecchio zio saggio e scapigliato da cui hai imparato tante cose sul difficile mestiere di vivere. In senso metaforico, naturalmente. Se non avessi mai vissuto le sue canzoni per molti versi oggi non sarei la persona che sono. Non necessariamente migliore o peggiore. Solo diverso. Premesso questo, speriamo di non fare la figura del Fede o del Fabio Fazio di turno. Vabbè, excusatio non petita, veniamo al sodo.
A otto anni dal suo ultimo lavoro, “Dear Heather” (2004), e dopo la definitiva consacrazione a guru internazionale della canzone d’autore sancita dall’iscrizione del suo nome nella Rock’n’Roll Hall Of Fame del 2008 e dall’inedito e fortunatissimo tour mondiale del 2010, Cohen si affaccia ad una nuova, ennesima, generazione di appassionati con un album significativamente intitolato “Old Ideas”. In un periodo storico in cui la sua musica (e la sua figura) è forse più influente e conosciuta che mai in passato, sia sul versante “alternativo” che su quello “generalista” (ammesso che una distinzione del genere abbia ancora senso), Cohen pubblica un disco affascinante ed anacronistico, elegantemente fuori dal tempo. Il passo è lento, cadenzato, la gamma espressiva essenziale e un po’ monocromatica, la scrittura minimale ma ricca di dettagli e sfumature sottesi, austera eppure densa di calore umano, più armoniosa rispetto al predecessore, da cui riprende l’ampio spazio concesso al controcanto corale femminile, ormai una vera e propria seconda voce, mentre la sua, ingiallita e preziosa come la prima edizione scritta a mano di un capolavoro, smussa cantato e recitato con ruvida fragilità e sicura presa sull’ascoltatore. Merito anche dell’ottima produzione curata dal mitico Ed Sanders, co-leader e fondatore dei Fugs.
Meditando a voce bassa e roca su quello che è da sempre uno dei temi più ricorrenti ed ossessivi della sua poetica - la dicotomia fra estasi dei sensi e vocazione monacale, fra carnalità e spiritualità, fra profano e sacro - “Old Ideas” si divide idealmente in due grandi e primigeni affluenti che si rifanno alla classica distinzione fra gospel e blues. Al primo filone appartengono senza dubbio l’introduttiva “Going Home”, metalinguistica nel suo mettere in scena un dialogo fra l’autore e il suo alter ego, la sua creatività, fra l’avventuroso passato e un presente più sereno e distaccato, e le bellissime e innodiche “Show Me The Place” (“Show me the place where the word became a man/ Show me the place where the suffering began”) e “Come Healing”. Sull’altro versante, quello più bluesy e terreno, brillano brani come “Darkness”, torrida e groovy (piano, organo, chitarra e sax), e l’altrettanto sensuale “Different Sides” (oltre ad “Anyhow”). In equilibrio fra le due sponde del creato si colloca, invece, “Amen”, un salmo sulla purificazione e sul sacrificio che passa per la consapevolezza del male e della debolezza umana (“Tell me again when the filth of the butcher/ Is washed in the blood of the lamb”), musicalmente una sorta di autoplagio di “I’m Your Man”, con la voce di Cohen che si accartoccia in un rantolo cavernoso e quasi waitsiano su un’ andatura dai forti accenti klezmer. “Crazy To Love You” e “Lullaby”, infine, sembrano lanciare un ponte invisibile (e forse impossibile) a lambire la maniera coheniana del periodo “Songs”, con il folk e il picking che prendono a poco a poco il sopravvento sulla liturgia del piano/organo e dei call and response , l’armonica a bocca (nella seconda) e quello strano ritmo sghembo, da minuetto rallentato e sussurrato.
“I'm old and the mirrors don't lie” ammette Cohen “But crazy has places to hide in/ That are deeper than any goodbye”. È il suo personale elogio alla follia. Una follia che ci rende ogni giorno più giovani e dà l’acqua della vita a dischi come questo. Così bello che non vediamo l’ora di sentire il prossimo. A presto.
Sincerely L. Cohen
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