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R Recensione

8/10

Lucinda Williams

The Ghosts of Highway 20

Risalire il fiume carsico della nostalgia non è mai una questione semplice. Monroe, nord-est della Louisiana. Ai lati del liquido miraggio stradale c’è tanta di quella polvere che a poco a poco assopisce i sensi. Strati e strati grigiopolvere seppelliti dagli anni, a filo della ruggine che copre con chiazze color rame il cofano motore e la fiancata destra di una Ford Mustang wimbledon white del ’65. C’è polvere sparsa anche sui sedili usurati e nei pensieri vagabondi di L. La linea d’asfalto che ha davanti è un puntino indefinito all’orizzonte dell’Highway 20 e per ricongiungersi con quella chimera lontana, inafferrabile chiamata “passato” a lei non basta altro, non serve altro che girare la chiave nel cruscotto nero e spartano. Un passato remoto che dal volante della sua Ford bianca ritorna nelle ombre degli amanti chiusi dentro le piccole camere di motel, nella passione effimera di scopatine occasionali, nei perdenti senza causa ai margini del menzognero sogno/incubo americano, ingabbiati per sempre in qualche afoso sobborgo dimenticato da dio.

“God knows it rains in Louisiana, but not enough to wash away sins of the father…Out in deep south when i was growing up looking back on the sweetness, looking back on the rough…”

Da Kent nel Texas a Florence nella Carolina del Sud, passando lungo i quasi 2500 chilometri d’autostrada che collegano come il casellario di un cruciverba geografico Mississippi, Alabama, Giorgia e infine Louisiana, dove corre parallela alla storica Route 80: l’interstatale è una lunga striscia blu intinta dalla sua nascita nei Cinquanta di cinema e letteratura, un caravanserraglio dell’anima che s’estende fino al profondo Sud di quei quattro o cinque stati federati culla primordiale della più calda e imitata american music. Sulla strada verso casa L. talvolta accosta e spegne il rumore sbilenco dell’otto cilindri. Guarda fuori dal finestrino, ricerca la sé bambina adolescente nelle centinaia di abitazioni diroccate, nei rimasugli di drugstore abbandonati, le ruote continuano a girare e a consumarsi ancora e ancora, poi lo stop d'un passaggio a livello, un velocissimo treno merci, il suo viaggio fisico e mentale può riprendere il percorso prestabilito sui binari della memoria, mentre intorno scorrono veloci come in un trasparente retroproiettato fattorie, autocarri, pompe di benzina, e immensi campi di grano coltivati da immensi macchinari agricoli.

“I know this road like the back of my hand…Same with the stations, only FM band. Farms and truck stops and firework stands…Yeah i know this road like the back of my hand. Every question and every breath, every exit leaves a little death…In this way a memory, that will wander with the ghost of highway 20…”

“Dust” è un mesmerico blues impressionista aggrovigliato nelle risacche di questi luoghi tanto familiari, faulkneriani, note che si palesano nell’abitacolo della vecchia Mustang coupé da sconosciute frequenze radio fm, con Frisell a illustrare concisi e astratti paesaggi di post-americana sullo sfondo della classicità pedal-steel dello specialista Greg Leisz. Sei minuti di suggestioni rapprese e visionarie, come nelle acustiche spoglie che sorreggono la preghiera laica di “Death Came” e nell’ispirata riscrittura roots che smuove lo scherzetto folk-blues à la Hank Williams via Gram Parsons di “Bitter Memory” (“Go away bitter memory…Why do you have to be a source of misery, leave me alone let me live on…”) e la dolente “If There’s A Heaven”. Avanzano i cartelli di Winnfield, Alexandria, Baton Rouge. Giù fino ai dylaneschi e fluviali 9’05’’ di un’altra, ritualistica, “Louisiana Story”. L’auto sosta finalmente nei dintorni di quella che fu la casa d’infanzia di L. e che oggi sopravvive in un ricordo dai legni logori e vernice scrostata. Nei suoi pensieri di donna adulta risuonano i versi acri di “House Of Earth”: un testo inedito di Woody Guthrie donato dalla figlia Nora (sulle vicende on the road di una prostituta raccontate dal suo punto di vista), di un neorealismo in b/n crudo e inusitato per gli anni della Grande Depressione.

“Call me a prostitute and a whore too, i do these tricks your wife refuses to…I swear by all my bibles you won't regret, i've never seen a man who's sorry yet…Come to my house of earth if you would like for me to gather old time feelings back…”

Quello compiuto da Lucinda Williams nel voluminoso doppio “The Ghosts of Highway 20” -l’ennesimo dopo il recente e già notevole “Down Where The Spirit Meets The Bones”- è  un denso, a tratti oscuro, cammino sull’asfalto e dentro i fantasmi dell’I-20 che percorre l’intera Louisiana. Accompagnata da una band d’eccezione (il grande Bill Frisell, le chitarre elettroacustiche di Greg Leisz e di Val McCallum, David Sutton al basso, Carlton “Santa” Davis e Butch Norton alle percussioni, il marito e manager Tom Overby alla produzione presso gli studi californiani Dave’s Room) la veterana Williams conferma alla soglia dei 63 anni uno status creativo raro, che la preserva ormai da lustri storyteller di valore assoluto, classica tra i classici. Onore alla bionda signora nata a Lake Charles e alle quattordici tracce, per oltre ottantasei minuti, della grumosa e varia umanità rappresentata da “The Ghosts Of Highway 20”: un dilatato evocativo spazio imbevuto di Storia e storie individuali (la “Factory” pescata dal canzoniere settantiano del miglior Springsteen, qui ripresa in una nuda e tersa interpretazione di puro spiritual folk), narrato attraverso rurali atmosfere notturne (lo scintillio psych-blues della titletrack, l’intensa “If My Love Could Kill”...“Slayer of wonder, slayer of words. Murderer of poets, murderer of songs… If my love could kill, i would kill this.”) e pregni traditional bluegrass moderni (la “Doors Of Heaven” dedicata all’amato padre Miller, poeta e scrittore mancato nel gennaio 2015 a causa di una lunga battaglia con l’alzheimer) che ne fanno, a scanso d’equivoci, uno dei migliori esempi di alt-country/americana realizzati nell’ultima decade. Perché, se ciò che spingeva Alvin Straight per 240 miglia su un minuscolo trattore rasaerba era un amore incondizionato, l’approdo della giovane L. alla maturità di Lucinda appare, inequivocabilmente, un nitido e commosso gesto di “Faith And Grace” (“There's a little more faith and grace to help me run this race…That's all, that's all i need…Just a little more faith and grace is all that i'll need…”), un atto di definitiva e spontanea bellezza fin quando tutto tornerà polvere alla polvere. E non avremo più remore a disgiungere ogni pensiero malandato, ogni singola lacrima versata dal nostro passato.    

“Well you don't have to try to keep the tears back, 'cause you couldn't cry if you wanted to…Even your thoughts are dust.”

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C Commenti

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OlioCuoreNero (ha votato 8 questo disco) alle 13:42 del 20 luglio 2016 ha scritto:

Disco e artista(i) di categoria superiore. Recensione e autore anche.

FrancescoB (ha votato 7 questo disco) alle 16:05 del 6 agosto 2016 ha scritto:

Al primo impatto posso dire che mi aspettavo qualcosa di più. Lavoro sicuramente valido, ma un filo monocorde, "lento" e forse un po' più lungo del necessario. Oddio, il giudizio rimane più che positivo (i pezzi non mancano), però nulla per cui stracciarsi le vesti. Recensione bellissima.