Neil Young
Hitchhiker
Ormai da diversi anni Neil Young ha aperto lo scrigno dei suoi mitologici e sterminati Archivi, e le uscite discografiche di quel filone hanno già ampiamente saziato gli appetiti dei suoi più esigenti aficionados. Questanno è cosi' arrivata la pubblicazione di Hitchhiker, uno dei suoi più favoleggiati lost album: frutto di un'unica session solitaria e acusticheggiante, registrata in una singola notte, da allarme in caso di inopinato controllo anti-doping, nel 1976 nella sua villa di Malibu.
Siamo in un periodo assai confuso per il Loner, che ha appena piantato in asso leterno amico-rivale Stephen Stills in tour, e si cura le ferite di una prima parte di decennio vissuta a tutta velocità: successo clamoroso e in parte rinnegato con la ditch trilogy, lutti, il sodalizio con Crosby, Stills & Nash ormai spezzato, amori finiti e turbolenze politico-esistenziali. Il risultato è un disco realizzato con il fido David Briggs in cabina di regia, ma subito inghiottito nei suoi mitici scantinati, anche se la maggior parte dei brani in esso contenuti verranno, come da prassi per Neil, rielaborati in altra veste in lavori successivi. Su tutti proprio la brutale auto-confessione sulla sbornia post-Harvest delineata nella title track, riarrangiata con la spettrale produzione di Daniel Lanois nellottimo Le Noise del 2010.
Solo due sono infatti gli inediti tout court dati in pasto ai più esigenti collezionisti di tutto ciò che è scaturito dalla penna delleterno orso canadese: Hawaii e Give Me Strength, due tipici numeri da crepuscolo westcoastiano, che avrebbero potuto arricchire quel seguito di Deja Vu di CSN&Y rimasto una chimera per tutti i seventies. Non mancano daltronde alcune primordiali versioni di classici conclamati del repertorio youngiano, da Pocahontas a Captain Kennedy, fino ad una incantevole The Old Country Waltz solo voce e piano, ben lontana dal caustico e sgangherato country-rock di American Stars n Bars. Svetta in particolare la prima versione di Powderfinger, in assoluto uno dei capisaldi di ogni concerto coi Crazy Horse da eoni, ben diversa dalla tellurica tempesta di feedback che apriva la facciata elettrica di Rust Never Sleeps. Si può così apprezzare meglio, nel suo crudo candore, uno dei testi più toccanti e celebrati nella peculiare Epica Americana delluomo dellOntario: la storia eroica di un ragazzo che varca la linea dombra della vita senza fare ritorno.
Notevole infine laver dato unulteriore vetrina a Campaigner, sublime ballata un po schiacciata nella tripla raccolta Decades, che presenta la disillusa confessione di un attivista democratico: i cocci del sogno americano e della controcultura sixties vengono messi in scena con un mood degno di On The Beach, in versi emblematici come Roads stretch out like healthy veins / And wild gift horses strain the reins / Where even Richard Nixon has got soul / Even Richard Nixon has got soul.
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