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R Recensione

6/10

Jester At Work

Magellano

Se volete davvero sapere cos’è e come suona “Magellano”, preparatevi psicologicamente a realizzare la peggior operazione criminale mai tentata su di un disco: la tracklist personale ad uso e consumo del fruitore. Mai i poli opposti furono sfruttati in maniera così fuorviante. “The Branch” è una venerabile sequenza di arpeggi acustici arrostiti dall’uso, spizzicati da una voce claudicante che, nel mentre, è inevitabilmente trattenuta nei suoi voli pindarici, causa ovattata cattura sonora da parte di un modesto registratore Fostex a quattro tracce adibito alla bell’e meglio per l’occasione: solo, unico, forte legame con la ricercata amatorialità del – già segnalato – capitolo primo, “Lo-Fi, Back To Tape”. Mezz’ora dopo, “Alphabet Tree” rimescola completamente le carte in tavola, annullando l’intimo ed arcano minimalismo del singolo in favore di un arioso, professionale landscape blues per big band, inframmezzato da chitarre sudiste, elaborate strutture polistrumentali e reprise fantasma con le urla sguaiate nel petto ed il retrogusto di cajun in bocca. Un capovolgimento di fronte del tutto inatteso, e francamente – scelte estetiche a parte – inutile: l’essenza di “Magellano” non sta né nell’uno, né nell’altro estremo.

Antonio Vitale è un lupo solitario, che ulula l’oscurità del suo percorso ai riflessi della luna sulle pareti rifrangenti della Maiella. E Jester At Work, nato per essere accogliente progetto casa, radici e focolare, improvvisamente subisce un’impennata dark, un notevole e nerotinto scarto stilistico. L’americana come il Joe Di Maggio del Santiago hemingwayiano, un lumino da portare in tasca e a cui rivolgersi, perennemente, con devozione, per ritrovare la retta via tra l’odore salmastro delle risacche, il sale rappreso sulle banchine, le balene giganti pronte ad ingoiare Giona come l’ultimo degli eroi. “Magellano” è teso, tesissimo, vibrante come una corda di acustica, e a poco serve il bucolico rilascio adombrato dalla tanto temuta “quinta” nota nella breve “Little Sad Song” (nomen omen), o il mandolino di Andrea Di Giambattista che, su “Remember To Remember”, fa diventare l’Eddie Vedder del cuore puro e dei sentimenti nobili anche il più coriaceo e polemico dei cantastorie guthrieani. Non può esserci altro che una pioggia martellante in sottofondo, nell’addensarsi plumbeo della narrazione di “December”, mentre “Green Eyes” si libera dei propri spettri attraverso un impercettibile battito ritmico, un vocoder frammentato ed improvvisi rallentamenti che, se elettrificati, suonerebbero senza dubbio alcuno come i Pentagram proto-doom di “The Ghoul”.

Attenzione, però, molta attenzione. Tolto di mezzo Cash, annullato Dylan, puntato il puntabile sul maledettismo folleggiante, chi rimane è sempre uno solo: Mark Lanegan. A tratti il moralista in ognuno di noi spingerebbe a fomentare la pantomima già adottata per The Tallest Man On Earth: un conto è l’ispirazione, un altro la decalcomania. La doppietta “Deep Black Sea” – “Unsolved (Mistery) Misery” (quest’ultima scandita, a ritmo funebre, da una batteria ridotta al minimo sindacabile) sfiora l’emulazione pura e semplice, appiattendo quanto di buono pure emerge dall’interpretazione rustica di Vitale. Meglio, molto meglio, quando le allucinazioni procedono per accostamenti di dissonanze misteriche e finti rischiaramenti (“This Night Will Be Dead”, ineccepibile), oppure quando Oscar Kid In The Desert gioca a fare la controparte spiritica e tex-mex del semipapero fu Samuel Katarro in una “Estaçion 14” eccezionalmente evocativa: ma sono episodi distanti tra loro, che si poco si parlano in viso ed ancor meno comunicano tra loro.

Jester At Work ha fatto un grosso passo in avanti per realizzarne, tutto sommato, uno indietro. Confidiamo in una terza tappa che funga da ideale sintesi e proietti il songwriting di Vitale dove meriterebbe davvero di stare: in alto.

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Voto degli utenti: 4,5/10 in media su 1 voto.
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