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R Recensione

7/10

John Zorn

The Song Project

La sobrietà, questa sconosciuta. Per i quarant’anni (il mezzo del cammin di nostra vita…) avrete, presumibilmente, passato una notte romantica con moglie o compagna, sarete andati all’estero con la famiglia o, tutt’al più, avrete fatto bagordi sino a tarda notte coi colleghi. Nel 1993, invece, John Zorn si regalò una monumentale riproposizione live, alla Knitting Factory, del suo game piece più noto, “Cobra”, con una mastodontica formazione da leccarsi i baffi solo a leggerla. Che dire, poi, dei cinquanta, la saggezza o presunta tale fatta età. Affaticati dalle suocere per il turning point focale della vostra esistenza? Non ditelo a John Zorn, che ha bagnato il genetliaco esibendosi per un mese di fila al Tonic di New York, ogni sera con formazioni e repertori differenti (da ciò, per inciso, sono nati anche undici dischi live). Dei sessanta – e dell’associazione, involontaria ma immediata, al primissimo declino psicofisico, alla transizione dall’età adulta alla vecchiaia, alla blandizia di pensiero e movimento –, dei nostri sessanta, non dovremmo nemmeno parlarne. Così non la pensa John Zorn che, anzi, se n’è inventata un’altra delle sue: perché dividere in compartimenti stagni la propria musica se si può suonare tutta quanta assieme, tutta in un’unica volta? La Masada Marathon, quattro ore no stop in cui si alternano molti dei musicisti e degli assetti chiamati ad interpretare uno o più capitoli del canzoniere Book Of Angels, è il figlio voluto (e parossistico) di uno stacanovismo difficile persino a quantificarsi.

Quanto distingue, marcatamente, i primi, eccezionali sessanta zorniani è, di fatto, un’appendice evolutiva di quest’ultimo progetto. Al sassofonista newyorchese viene in mente di non aver mai scritto, in quattro decenni di carriera, un vero e proprio disco di canzoni: e sì che di fidati amici interpreti, compositori e parolieri ne ha a bizzeffe. L’occasione è troppo ghiotta per essere mancata, il repertorio straordinariamente ampio. Le penne di Sean Lennon, Mike Patton, Sofia Rei Koutsovitis e Jesse Harris si incaricano di dar vita a “The Song Project” così come abbiamo potuto ammirarlo e sentirlo, in giro per l’Europa, sin dallo scorso anno: una variegata selezione di brani riarrangiata da una superba formazione allargata (Cyro Baptista, Joey Baron, Trevor Dunn, Kenny Wollesen, John Medeski, Marc Ribot: cinque sesti di The Dreamers) e impreziosita dalle voci, così lontane eppure così vicine, dei vari collaboratori. Analizzarne il profilo aiuterà a comprendere il carattere composito e fuori dal comune dell’iniziativa.

Il primo (che compare qui, tuttavia, solo come paroliere, e non come interprete) ha un cognome che definire parlante è poco, una carriera difficile e tutta in salita (il suo ultimo full length, “Friendly Fire”, risale ormai ad otto anni fa), una caratura artistica perennemente stritolata dall’imponente Moloch paterno e dall’eclettismo della compagna di tanti anni, Yuka Honda delle Cibo Matto. Sul secondo, sodale di Zorn da un ventennio e più, non occorre aggiungere ulteriori e superflue parole. La terza figura, greca d’origine, argentina di nascita e chiaramente ebrea di stirpe, racconta di una bella e raffinata chanteuse del moderno latin jazz targato Grande Mela, già parte del quartetto a capella Mycale. Vera incognita è la quarta, un cantautore soul di modesta caratura e dai buoni trascorsi commerciali, sbarcato su Tzadik quattro anni fa con “Cosmo”, rielaborazione strumentale di un pugno di propri autografi con l’aggiunta di alcuni inediti. L’insieme, fortemente eterogeneo, rispecchia la sfaccettata e polimorfica (schizofrenica?) attività del gran maestro e conduttore Zorn. Patton è il fuoriclasse sfrontatamente dotato, a suo agio con le sonorità più urticanti ed ostiche, ma parimenti capace anche di calarsi in contesti più delicati. Sofia Rei è il battito del Mediterraneo, l’ugola agognata per molte soundtracks, la voce in bilico tra le radici della tradizione e lo sperimentalismo professionale. La particolare tonalità nasale di Harris prende le parti di alcune tra le più recenti aperture pop dello Zorn compositore (“Alhambra Love Songs”, The Dreamers, spezzoni dello Gnostic Trio) ed è, nella sua marginalità, la figura paradossalmente più centrale della raccolta.

Quanto oggi si sente, spalmato su sei 45 giri raccolti in un ricco box set, è la registrazione della scaletta a più riprese proposta per i più importanti festival jazz europei ed americani. Unicamente due le impennate adrenaliniche, entrambe provenienti dai Naked City ed entrambe interpretate da Patton, a confermare che il fulcro del discorso zorniano si è spostato da tempo altrove: “Batman” (apertura dell’omonimo esordio del 1990) diventa “Flying Blind” – ma la chitarra blueseggiante di Ribot e l’organetto troppo pronunciato di Medeski ne attutiscono grandemente il fuoco incrociato –, “Osaka Bondage” (dal successivo “Grand Guignol”, 1992) viene restaurata addirittura in due distinte, scoppiettanti versioni (“Burn Takes 1 & 2”). Furoreggia ancora il leader dei redivivi Faith No More, in una “Do Not Let Us Forget” (la “Zapata Rail” di “O’o”, 2009) riletta come swing zappiano in inesorabile crescendo, nella “Dalquiel” del Bar Kokhba Sextet trasformata in fusion da Scerbanenco (“Perfect Crime”: la fonte è “Lucifer”, decimo volume dei Book Of Angels, 2008) e nella doppietta finale, la big band crooneristica di “The Man In The Blue Mask” (la vecchia “Of Wonder And Certainty”, dal bestseller “The Dreamers”, 2008) e l’accorata “Assassin’s Bay” (la nuova versione di “Our In-House Dostoevsky”, dal ventiquattresimo FilmWorksThe Nobel Prizewinner”, 2010). Poi il proscenio è conquistato dalla bravissima Rei, che imbeve di pathos lirico la malinconica chitarra flamenco di “Sombra En El Espejo” (il brano originale, “Besos De Sangre”, è contenuto in “El General”, ventitreesimo capitolo dei FilmWorks, 2008), si trascina dolente, contrappuntata alla perfezione da Patton, nei riverberi desertici de “La Flor Del Barrio”, spartiacque di “The Gift” del 2001 (qui “Para Borrar Tu Andar”)  e trasforma radicalmente la natura neoclassica di “Tears Of Morning”, tema portante del diciannovesimo FilmWorksThe Rain Horse”, 2009 (“La Despedida”), donandole un piglio quasi etno. Harris, come prevedibile, corre su binari paralleli e mai incidenti a quelli dei compagni di strada: la stucchevole “Waiting For Christmas” (rielaborazione della già tutt’altro che memorabile “Mountain View”, di “Alhambra Love Songs”, 2009) è un leggero jazz cantautorale, “The Wind In The Clouds” (la “Tamalpais” dello stesso disco) si dimentica facilmente e “Kafiristan” (da “Towards Kafiristan”, contenuta in “The Concealed – Esoteric Secrets And Hidden Traditions Of The East”, 2012) riesce nell’impresa di addomesticare barocchismi pianistici à la Uri Caine.

Tale dovizia di particolari ha asservito al suo scopo? Mettiamola così: se, per Mike Patton, Peeping Tom è stata la sua personalissima stazione radio, l’equivalente zorniano di quell’unicum è proprio “The Song Project”. Da avere, come ricordo, e da ascoltare di tanto in tanto.

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