Josh T. Pearson
Last Of The Country Gentlemen
Josh […] dovresti darti una mossa con il tuo album. Non hai concorrenti, là fuori.
Warren Ellis, intervistato da Josh T. Pearson
Warren Ellis, superbo violino nei Dirty Three, lo si conosce bene o male tutti. E non sarà Dio (anche se qualcuno potrà obiettare che poco ci manca), ma la Verità, questa volta, ce l’aveva eccome.
Chi è, invece, Josh T. Pearson? In effetti, non saprei dire a quanti possa essere capitato, nel corso degli ultimi dieci anni, di imbattersi - intenzionalmente o meno - nel doppio album dei texani Lift To Experience, primo (e unico) disco della prima (e unica) band nella quale Pearson militò, rivelando al mondo (con postumi clamori) la sua voce, le sue aspre parole di devozione religiosa e il suo peculiare, intricato stile alla sei corde. The Texas-Jerusalem Crossroads (questo il titolo - non casuale - di quel disco cult) fu pubblicato nel 2001 dalla Bella Union, l’etichetta degli ex Cocteau Twins Robin Guthrie e Simon Raymonde. Ancora, non a caso: i lidi shoegaze, prossimi addirittura a certo noise, cui il lavoro approdava, affrancandosi da una base cantautorale già ben presente, ma in certo qual modo sacrificata dentro un suono stratificato e frizionante, acerbo ed affascinante in egual misura, ne chiarificano le ragioni. Il disco fu, in realtà, un piccolo grande successo fin da subito. Non abbastanza però (o meglio, anche troppo) perché Josh potesse sopportarne il peso. Personaggio ombroso, evidentemente fragile e complesso, erede di una tradizione di fede acquisita - non senza drammi - già fra le mura domestiche, Pearson non riuscì a sobbarcarsi le responsabilità della (modesta) fama e preferì dissolversi, novello Jeff Mangum in crisi mistico/esistenziale, nella sabbia della sua terra, delegando al cielo le responsabilità della vita sua e di quella dei suoi compagni d’avventura. Ce n’è abbastanza, direi, per comprendere l’alone leggendario che negli anni ha avvolto il personaggio elevandolo, manco a dirlo, ad ennesimo culto semi-mitologico americano.
Il suo inatteso e roboante ripresentarsi in scena passa attraverso anni di attività creativa mai sopita (qualche sparuto concerto solista, tante nuove canzoni e pochissime incisioni tardivamente ufficializzate), relegata però sempre ai margini del visibile, e che vede comunque alcune tappe importanti nelle collaborazioni con Bat For Lashes e My Bloody Valentine nonchè, più che mai, nel sodalizio genuinamente amichevole con i Dirty Three. È attraverso l’attività live con il combo australiano, infatti, che Josh trova le motivazioni ed il coraggio per incidere le sette canzoni contenute in quest’album.
Coraggio, assolutamente, perché questo ci vuole per mettere su disco simili ritratti di intimismo radicale, intenso, doloroso al limite della repulsività (e per parole, e per intensità, e per costruzione musicale). Un intimismo che, nelle parole dell’artista, “non si dovrebbe far uscire dalla propria stanza”. In un’ora scarsa di quasi sola chitarra acustica e voce (gli inserti di violino - di Ellis, ovviamente - e piano sono meravigliosi quanto radi e assolutamente non indispensabili), Josh diluisce brani che, salvo in tre casi, superano l’incredibile soglia dei dieci minuti (è un’ambizione, la sua, sfacciata e pura come solo fu di un Tim Buckley o di un Roy Harper): lo fa allungando e nascondendo le melodie entro spazi lunghissimi, in una moltitudine di parole vibranti e variazioni libere, sì che solo dopo svariati ascolti esse riescono finalmente a manifestarsi in tutta la loro gloriosa e pur sempre insondabile bellezza. Imbroglia il tempo, Josh, con l’involontarietà e l’innocenza che per natura scaturiscono da un’ispirazione profondamente sincera e mai - neppur minimamente - imbrigliata dalla ragione, preponendo sempre l’interiorità immacolata alla compiacenza, la sostanza emozionale alla forma. Rinuncia al delirio sonico di un tempo per abbracciare invece il più essenziale e roots-oriented dei country-folk, così come rinuncia all’aggressiva redenzione di noi tutti in favore di quella sua propria, personale, relegando Dio nell’ombra di un amore ora molto più terreno, esperibile, concreto: quello tra uomo e donna, tra corpi fisici e affinità animistiche.
“I’m off to save the world, at least I can hope” proclama in apertura, nell’elegiaca Thou Art Loosed, tre minuti di chitarra liquida e voce che, tanto per dar la misura, racchiudono solo l’iterazione in crescendo di un ultraterreno falsetto (fra David Crosby e gli ultimi Grizzly Bear?) ed un refrain fin da subito memorabile. È solo un chiarirsi, però, ché è con Sweetheart I Ain’t Your Christ che si entra davvero in quella che è la materia del disco: racconti (confessioni) di un reale vissuto, il più delle volte drammatico, profusi come se venissero, senza alcun filtro, direttamente dagli anfratti più reconditi di un uomo logorroico e iper-sensibile, a cui solo è rimasta la consapevolezza d’essere sopravvissuto, chissà poi come, alla propria, personale apocalisse.
In questo senso sono sviscerati i temi dell’amore, attentamente selezionati - e ci mancherebbe - fra i peggiori possibili: i litigi (Woman, When I’ve Raised Hell), i tradimenti (la terrificante Honeymoon’s Great! Wish You Were Her), i sensi di colpa (il meraviglioso deliquio schizoide di Sorry With A Song). E non basta la dolcezza quasi gospel della finale Drive Her Out per alimentare nuove speranze. Serve, invece, entrare con pazienza nelle profondità di questi solchi: non è un perdente, l’uomo che ci parla, ma un eroe che strenuamente resiste, lotta e sanguina per risalire faticosamente la china. È così che oggi Josh T. Pearson canta, attraverso una dotazione vocale non eccezionale ma efficacissima, flebile ma sicura, affine - molto - al primissimo Springsteen e vicina più all’eleganza composta di un Townes Van Zandt che all’estensione istrionica di un Buckley padre (per nulla) o figlio (qualcosa) che siano. Eppure basta e avanza alla scopo: mira al cuore e vi si insidia, inesorabile, come un innamoramento. Allo stesso modo lavora il suo strumento: un finger-picking pirotecnico, devoto alla tradizione e pur originalissimo, scarnificato dalla legnosità antica e materialmente percepibile della chitarra, che indugia volentieri in vortici da bluegrass moviolato o in delicatezze estreme (quando non in veri e propri silenzi), e tendente però ad esplodere in strumming nervosi, improvvisi e laceranti cui le parole e le metriche complesse si abbarbicano, in un gioco di equilibri e contrappunti fra note al canto e gravi che è una sorpresa e una gioia continua. Con le vibrazioni di queste corde danza mellifluo - in tre episodi - il violino di Warren Ellis, misurato e al solito impareggiabile, chiarendo oltre ogni dubbio l’affinità elettiva fra i due artisti, che evidentemente va ben oltre la comune, folta e trasandata barba.
Disco, insomma, impressionante e imprescindibile, questo The last Of The Country Gentlemen. Piaccia o meno, è un lavoro che non trova paragoni nell’attuale (passata?) scena cantautorale e la cui pubblicazione, oggi, appare già di per sé decisamente fuori dall’ordinario, per non dire totalmente incredibile. È il classico disco che, banalmente, si può definire senza tempo, o fuori dal tempo: sarebbe potuto uscire - ugualmente valido e paradossalmente attuale - cinquant’anni fa, oppure tra cinquant’anni. Che tanto l’uomo è quel che è: sempre ha avuto e sempre avrà bisogno di qualcuno - magari un artista - in grado di rivelargli - magari cantandoglielo - il suo stesso incomprensibile dolore.
Casa di fantasmi di intoccabili (Hank Williams non manca di insinuarsi in ogni pertugio possibile), culla di arie american primitive (più che John Fahey stesso, le riscoperte che a lui dobbiamo), The Last Of The The Country Gentlemen rischia di essere - per l’ambito in cui si pone - non solo il caso dell’anno, ma quello degli ultimi - e forse dei prossimi - dieci. C’è solo da augurarsi la fortuna di essere fra quelli in grado di apprezzarlo, ché robe del genere, che sanguinano e illuminano come un santo in croce, l’oggi che corre ne regala ben poche.
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