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R Recensione

8,5/10

Josh T. Pearson

Last Of The Country Gentlemen

Josh […] dovresti darti una mossa con il tuo album. Non hai concorrenti, là fuori.

Warren Ellis, intervistato da Josh T. Pearson

 

Warren Ellis, superbo violino nei Dirty Three, lo si conosce bene o male tutti. E non sarà Dio (anche se qualcuno potrà obiettare che poco ci manca), ma la Verità, questa volta, ce l’aveva eccome.

Chi è, invece, Josh T. Pearson? In effetti, non saprei dire a quanti possa essere capitato, nel corso degli ultimi dieci anni, di imbattersi - intenzionalmente o meno - nel doppio album dei texani Lift To Experience, primo (e unico) disco della prima (e unica) band nella quale Pearson militò, rivelando al mondo (con postumi clamori) la sua voce, le sue aspre parole di devozione religiosa e il suo peculiare, intricato stile alla sei corde. The Texas-Jerusalem Crossroads (questo il titolo - non casuale - di quel disco cult) fu pubblicato nel 2001 dalla Bella Union, l’etichetta degli ex Cocteau Twins Robin Guthrie e Simon Raymonde. Ancora, non a caso: i lidi shoegaze, prossimi addirittura a certo noise, cui il lavoro approdava, affrancandosi da una base cantautorale già ben presente, ma in certo qual modo sacrificata dentro un suono stratificato e frizionante, acerbo ed affascinante in egual misura, ne chiarificano le ragioni. Il disco fu, in realtà, un piccolo grande successo fin da subito. Non abbastanza però (o meglio, anche troppo) perché Josh potesse sopportarne il peso. Personaggio ombroso, evidentemente fragile e complesso, erede di una tradizione di fede acquisita - non senza drammi - già fra le mura domestiche, Pearson non riuscì a sobbarcarsi le responsabilità della (modesta) fama e preferì dissolversi, novello Jeff Mangum in crisi mistico/esistenziale, nella sabbia della sua terra, delegando al cielo le responsabilità della vita sua e di quella dei suoi compagni d’avventura. Ce n’è abbastanza, direi, per comprendere l’alone leggendario che negli anni ha avvolto il personaggio elevandolo, manco a dirlo, ad ennesimo culto semi-mitologico americano.

Il suo inatteso e roboante ripresentarsi in scena passa attraverso anni di attività creativa mai sopita (qualche sparuto concerto solista, tante nuove canzoni e pochissime incisioni tardivamente ufficializzate), relegata però sempre ai margini del visibile, e che vede comunque alcune tappe importanti nelle collaborazioni con Bat For Lashes e My Bloody Valentine nonchè, più che mai, nel sodalizio genuinamente amichevole con i Dirty Three. È attraverso l’attività live con il combo australiano, infatti, che Josh trova le motivazioni ed il coraggio per incidere le sette canzoni contenute in quest’album.

Coraggio, assolutamente, perché questo ci vuole per mettere su disco simili ritratti di intimismo radicale, intenso, doloroso al limite della repulsività (e per parole, e per intensità, e per costruzione musicale). Un intimismo che, nelle parole dell’artista, “non si dovrebbe far uscire dalla propria stanza”. In un’ora scarsa di quasi sola chitarra acustica e voce (gli inserti di violino - di Ellis, ovviamente - e piano sono meravigliosi quanto radi e assolutamente non indispensabili), Josh diluisce brani che, salvo in tre casi, superano l’incredibile soglia dei dieci minuti (è un’ambizione, la sua, sfacciata e pura come solo fu di un Tim Buckley o di un Roy Harper): lo fa allungando e nascondendo le melodie entro spazi lunghissimi, in una moltitudine di parole vibranti e variazioni libere, sì che solo dopo svariati ascolti esse riescono finalmente a manifestarsi in tutta la loro gloriosa e pur sempre insondabile bellezza. Imbroglia il tempo, Josh, con l’involontarietà e l’innocenza che per natura scaturiscono da un’ispirazione profondamente sincera e mai - neppur minimamente - imbrigliata dalla ragione, preponendo sempre l’interiorità immacolata alla compiacenza, la sostanza emozionale alla forma. Rinuncia al delirio sonico di un tempo per abbracciare invece il più essenziale e roots-oriented dei country-folk, così come rinuncia all’aggressiva redenzione di noi tutti in favore di quella sua propria, personale, relegando Dio nell’ombra di un amore ora molto più terreno, esperibile, concreto: quello tra uomo e donna, tra corpi fisici e affinità animistiche.

I’m off to save the world, at least I can hope” proclama in apertura, nell’elegiaca Thou Art Loosed, tre minuti di chitarra liquida e voce che, tanto per dar la misura, racchiudono solo l’iterazione in crescendo di un ultraterreno falsetto (fra David Crosby e gli ultimi Grizzly Bear?) ed un refrain fin da subito memorabile. È solo un chiarirsi, però, ché è con Sweetheart I Ain’t Your Christ che si entra davvero in quella che è la materia del disco: racconti (confessioni) di un reale vissuto, il più delle volte drammatico, profusi come se venissero, senza alcun filtro, direttamente dagli anfratti più reconditi di un uomo logorroico e iper-sensibile, a cui solo è rimasta la consapevolezza d’essere sopravvissuto, chissà poi come, alla propria, personale apocalisse.

In questo senso sono sviscerati i temi dell’amore, attentamente selezionati - e ci mancherebbe - fra i peggiori possibili: i litigi (Woman, When I’ve Raised Hell), i tradimenti (la terrificante Honeymoon’s Great! Wish You Were Her), i sensi di colpa (il meraviglioso deliquio schizoide di Sorry With A Song). E non basta la dolcezza quasi gospel della finale Drive Her Out  per alimentare nuove speranze. Serve, invece, entrare con pazienza nelle profondità di questi solchi: non è un perdente, l’uomo che ci parla, ma un eroe che strenuamente resiste, lotta e sanguina per risalire faticosamente la china. È così che oggi Josh T. Pearson canta, attraverso una dotazione vocale non eccezionale ma efficacissima, flebile ma sicura, affine - molto - al primissimo Springsteen e vicina più all’eleganza composta di un Townes Van Zandt che all’estensione istrionica di un Buckley padre (per nulla) o figlio (qualcosa) che siano. Eppure basta e avanza alla scopo: mira al cuore e vi si insidia, inesorabile, come un innamoramento. Allo stesso modo lavora il suo strumento: un finger-picking pirotecnico, devoto alla tradizione e pur originalissimo, scarnificato dalla legnosità antica e materialmente percepibile della chitarra, che indugia volentieri in vortici da bluegrass moviolato o in delicatezze estreme (quando non in veri e propri silenzi), e tendente però ad esplodere in strumming nervosi, improvvisi e laceranti cui le parole e le metriche complesse si abbarbicano, in un gioco di equilibri e contrappunti fra note al canto e gravi che è una sorpresa e una gioia continua. Con le vibrazioni di queste corde danza mellifluo - in tre episodi - il violino di Warren Ellis, misurato e al solito impareggiabile, chiarendo oltre ogni dubbio l’affinità elettiva fra i due artisti, che evidentemente va ben oltre la comune, folta e trasandata barba.

Disco, insomma, impressionante e imprescindibile, questo The last Of The Country Gentlemen. Piaccia o meno, è un lavoro che non trova paragoni nell’attuale (passata?) scena cantautorale e la cui pubblicazione, oggi, appare già di per sé decisamente fuori dall’ordinario, per non dire totalmente incredibile. È il classico disco che, banalmente, si può definire senza tempo, o fuori dal tempo: sarebbe potuto uscire - ugualmente valido e paradossalmente attuale - cinquant’anni fa, oppure tra cinquant’anni. Che tanto l’uomo è quel che è: sempre ha avuto e sempre avrà bisogno di qualcuno - magari un artista - in grado di rivelargli - magari cantandoglielo - il suo stesso incomprensibile dolore.

Casa di fantasmi di intoccabili (Hank Williams non manca di insinuarsi in ogni pertugio possibile), culla di arie american primitive (più che John Fahey stesso, le riscoperte che a lui dobbiamo), The Last Of The The Country Gentlemen rischia di essere - per l’ambito in cui si pone - non solo il caso dell’anno, ma quello degli ultimi - e forse dei prossimi - dieci. C’è solo da augurarsi la fortuna di essere fra quelli in grado di apprezzarlo, ché robe del genere, che sanguinano e illuminano come un santo in croce, l’oggi che corre ne regala ben poche.

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Voto degli utenti: 6,3/10 in media su 29 voti.

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Filippo Maradei (ha votato 9 questo disco) alle 1:07 del 21 marzo 2011 ha scritto:

Che bella recensione che hai fatto Paolo, l'ho letta tutta d'un fiato per poi rileggerla più lentamente con l'album di sottofondo; detto senza retorica, non avrei potuto scrivere di meglio. Sul disco non so più che dire, se non poche banalità sparse: è un lavoro di un'intimità pazzesca, che segna un altro importante punto d'arrivo per la musica contemporanea tutta. Se ai tempi dei Dirty Three s'era detto che Warren Ellis incarnasse l'anima stessa del violino, beh, qui il caro Josh dà voce e pensieri a una chitarra che è nuda messaggera di emozioni, sensazioni, vibranti percezioni. Una confessione a cielo aperto, in cui Josh si spoglia d'ogni cosa e si racconta a noi con una naturalezza e una familiarità che quasi ci imbarazza, tanto è puro e indifeso il sentimento che esprime. L'accompagnamento di Ellis, manco a dirlo il mio musicista preferito di sempre, dona poi una carica di profondissima passionalità che rende l'intera opera ancora più istintiva e umana. Cos'altro potrei chiedere a un qualsiasi album? CAPOLAVORO.

SamJack (ha votato 9 questo disco) alle 7:28 del 21 marzo 2011 ha scritto:

Album d'una intensità degna, come detto, di Tim Buckley...merce rara di questi tempi.

fabfabfab (ha votato 9 questo disco) alle 10:34 del 21 marzo 2011 ha scritto:

Mi chiedo quanti avranno il tempo e la pazienza di approfondire un disco così. Io sto cominciando adesso, grazie a Paolo e alla sua ottima recensione, e mi sa tanto che sarò ampiamente ripagato.

hiperwlt alle 10:57 del 21 marzo 2011 ha scritto:

magistrale Paolo: impressiona il modo in cui entri nella psicologia del personaggio e la scruti così garbatamente. Il disco sarà, di certo, una tappa obbligatoria nelle prossime settimane.

paolo gazzola, autore, alle 12:51 del 21 marzo 2011 ha scritto:

Be', cavolo, subito un grazie a tutti...

ozzy(d) alle 13:28 del 21 marzo 2011 ha scritto:

devo metabolizzarlo ancora, ci sono parecchi spunti interessanti però confesso che certi gorgheggi vocali un po' mi sembrano eccessivi. ottima la rece.

Filippo Maradei (ha votato 9 questo disco) alle 13:50 del 21 marzo 2011 ha scritto:

Se vabbè, piace pure al Gully?! Siamo a cavallo allora!

sarah alle 14:26 del 21 marzo 2011 ha scritto:

Ne ho sentito parlare un gran bene, dovrò proprio ascoltarlo, le premesse dono davero intriganti.

nebraska82 (ha votato 9 questo disco) alle 23:11 del 21 marzo 2011 ha scritto:

Uno degli album dell'anno, lavoro toccante e imprescindibile.

Emiliano (ha votato 5 questo disco) alle 13:27 del 22 marzo 2011 ha scritto:

Gran bella recensione Paolo, mi hai convinto ad ascoltarlo, e con attenzione; il disco è povero e scarno, e che ti tocchi nell'intimo se glielo consenti ci credo. Mi è piaciuto, insomma, per "meriti extramusicali", ché qui, obiettivamente, di Musica mi è sembrato di trovarne poca e affatto scontata. Può darsi che sia un capolavoro, ma quando mi trovo di fronte opere di tale densità emotiva, ebbene, mi sento sempre un pochino spiazzato, non riesco a valutarle, non riesco a capire se si tratta una stronzata o una pietra miliare. Allora vado solo a naso. Insomma, un disco che mi è piaciuto per i motivi sbagliati.

paolo gazzola, autore, alle 14:11 del 23 marzo 2011 ha scritto:

Non so se ho capito bene, ma se ti è piaciuto per la "densità emotiva" e la capacità di

toccare nell'intimo, direi che sono ottimi motivi. E che escludono anche l'ipotesi "stronzata", no?

FeR (ha votato 2 questo disco) alle 8:33 del 25 marzo 2011 ha scritto:

La recensione è scritta benissimo, complimenti. Il disco invece, ahimé, non lo capisco. C'è chi è stufo delle attuali band post-punk, io invece sono stufo di questi cantautori col barbone, tutti uguali e tutti lagnosi. Mi domando che senso abbiano nel 2011, vieppiù in un caso come questo dove manco si possono inviduare melodie particolarmente affabili o qualsivoglia aggancio (perlomeno, non alla mia sensibilità). Non è la prima volta che vedo il paragone con Roy Harper, ma almeno per le mie orecchie il paragone è impietoso.

paolo gazzola, autore, alle 10:31 del 25 marzo 2011 ha scritto:

Non si sono paragonati gli artisti (vale anche per Buckley), ma soltanto la loro disposizione genuina ad infischiarsene di strutture e minutaggio.

Filippo Maradei (ha votato 9 questo disco) alle 13:54 del 25 marzo 2011 ha scritto:

Certo che ci vuole un bel coraggio a sparare certi voti...

FeR (ha votato 2 questo disco) alle 17:05 del 25 marzo 2011 ha scritto:

Beh appunto Paolo, tramite quella "disposizione genuina ad infischiarsene di strutture e minutaggio", Roy Harper sfornava delle gemme, mentre qui sento un disco sovradosato e noioso (sempre per quel che mi riguarda, si intende)...

paolo gazzola, autore, alle 12:08 del 26 marzo 2011 ha scritto:

Ah, allora ok FeR, pensavo ci fosse un malinteso di fondo... Sì, il disco in questione è indubbiamente "impegnativo" ma,come dici,è tutto relativo alle sensibilità personali. Del minutaggio (sovradosaggio) ho già detto qui su. E... quel che per te è noia, per me è pace dei sensi.

nebraska82 (ha votato 9 questo disco) alle 13:40 del 26 marzo 2011 ha scritto:

non capisco cosa volgia dire "sovradosato" sicneramente, per me è un disco meraviglioso in cui non c'è niente che stoni....

Monster 90 (ha votato 9 questo disco) alle 17:40 del 26 marzo 2011 ha scritto:

Bellissimo disco e ottima recensione Paolo, un riassunto perfetto di quello che ha scritto Stefano I. Bianchi su Blow Up di questo mese, che ha, meritevolmente, dedicato la copertina a Josh! Fategli un intervista!!!

paolo gazzola, autore, alle 16:43 del 28 marzo 2011 ha scritto:

RE:

Eh eh, articolone di SIB (e le poche interviste sul web) fonte preziosa per tracciare le vicende di un personaggio tanto poco conosciuto. Spero, tuttavia, di non esserne stato condizionato al punto da farne il "riassunto"...

FeR (ha votato 2 questo disco) alle 14:33 del 27 marzo 2011 ha scritto:

@Nebraska

come si suol dire, de gustibus. Io uno che miagola per dieci minuti alla chitarra acustica senza che succeda niente di particolare, non riesco a reggerlo. Mi piace solo "Sapphie" di Richard Youngs di disco a cui si possa applicare una simile descrizione, ma perché ci sono alcuni elementi che lo rendono alieno a una cantautorialità di un certo stampo, altrimenti credo non reggerei manco quello. E' un tipo di musica che trovo privo di fantasia.

Emiliano (ha votato 5 questo disco) alle 13:41 del primo aprile 2011 ha scritto:

Ripasso

ci ho provato, davvero, a trovarci qualcosa di interessante dal punto di vista musicale. Niente, il vuoto. Poi mi sono convinto che questo lavoro giochi con emozioni facili da suscitare con chitarra acustica, voce stridula e barba. E mi sono sentito preso un pò per il culo. Poi ho capito che è un disco DAVVERO onesto, questo ragazzo si scuoia l'anima una canzone alla volta,e se sono nello stato d'animo giusto ciò non ha prezzo. Ma non sempre sono nelle condizioni appropriate, e se emozioni ce ne sono a pacchi, di idee qui se ne vedono poche. Decisamente, non fa per me, lontanissimo da quello che considero musica.

salvatore alle 20:43 del 5 aprile 2011 ha scritto:

Sapete il voto che ha preso questo disco (che non ho ancora ascoltato) su pitch? No, è meglio che non ve lo dico...

Filippo Maradei (ha votato 9 questo disco) alle 20:48 del 5 aprile 2011 ha scritto:

RE:

Sono appena andato a vedere. Che dire, evidentemente vanno in tilt appena sentono una chitarra invece di una drum machine e dei synth...

fabfabfab (ha votato 9 questo disco) alle 15:10 del 6 aprile 2011 ha scritto:

Non è un disco facile, effettivamente. E' pesante, per usare un termine più generico possibile. Ma per chi ha familiarità con una certa estetica è un gioiello, come lo è il disco di Stranded Horse o quelli di Mark Kozelek. Bollarlo come un "altro cantautore barbone" non significa niente, è come dire un "altro gruppo musicale rock". Roba che va bene per Tv Sorrisi e Canzoni. Rientra in una categoria, come tutto, ed è ovvio che se passi le tue giornate ad ascoltare tutt'altro, non cogli ( e non ti interessa cogliere ) le differenze tra Iron & Wine e Will Oldham, giusto per citare due barboni famosi.

target alle 15:39 del 6 aprile 2011 ha scritto:

Verissimo tutto quello che dici. Secondo me, però, fab, non è un disco facile neppure per chi ha familiarità coi barbuti (e mi ritengo tra questi - tanto che sono barbuto almeno quanto loro ). Anzi, è un disco proprio moooolto difficile, soprattutto perché si dura fatica a trovarci melodie, non vocali ma anche solo chitarristiche (ed è perciò che roba come Stranded Horse e Tiny Vipers mi hanno affascinato, e Pearson proprio no). E' un disco tremendamente chiuso, troppo geloso della sua mitologia. Chiede di non farsi ascoltare quasi mai.

Filippo Maradei (ha votato 9 questo disco) alle 15:47 del 6 aprile 2011 ha scritto:

Ma davvero lo trovato così difficile? Lento è lento, verboso pure, allungato certamente, ma almeno a me risulta "facilissimo", oltre che molto piacevole, ascoltarlo per intero anche più volte a giorno. Impenetrabile all'inizio forse, ma dopo ti si scioglie in mano.

Filippo Maradei (ha votato 9 questo disco) alle 15:48 del 6 aprile 2011 ha scritto:

*trovate

FeR (ha votato 2 questo disco) alle 15:50 del 6 aprile 2011 ha scritto:

Filippo, se può servire, ti riporto un intervento non mio, pescato altrove nel web, che riassume però perfettamente ciò che penso e ho trovato estremamente divertente ---> "lo ascolto e l’angioletto sulla spalla destra mi dice “Abbi pazienza, è un disco estremo, coraggioso, religioso, intenso… abbasso la forma e viva la sostanza!”, però ogni volta che arrivo al mattonazzo di tredici minuti appare il diavoletto sulla spalla sinistra che mi dice “Oh coso, ma chi te lo fa fare?”. E non perché sia una brutta canzone, ma perché è esattamente identica alle due precedenti (sette e dodici minuti), e uguali sono le due canzoni successive (dieci minuti a testa)… e che cazzo!"

gull alle 16:06 del 6 aprile 2011 ha scritto:

A mio parere per chi non è di madre lingua inglese, e fatica nella traduzione simultanea, l'ascolto è difficoltoso (e quindi lo è per me). Sono convinto che tanta verbosità, caratteristica evidente del lavoro, DEVE essere compresa per entrare davvero in queste canzoni. Per dire, a me piacciono molto "Woman when i.." e l'iniziale "Thou art..", mentre per il resto rimango un pò perplesso, incapace di lasciarmi coinvolgere del tutto, non ne riesco a cogliere il significato e quindi che diavolo devo capirne?

Trovo molto più vicino ai miei gusti l'ottimo live "To Hull and back" (così come diverse splendide tracce live che si trovano su youtube), con pezzi molto più mossi ed una visceralità pazzesca, carne e vita esposte in modo esemplare.

Filippo Maradei (ha votato 9 questo disco) alle 16:30 del 6 aprile 2011 ha scritto:

RE: Sono convinto che tanta verbosità DEVE essere compresa per entrare davvero in queste canzoni.

E ti quoto duro, sono convinto anch'io. Voglio dire, un conto è studiare i testi in separata sede, magari vocabolario alla mano, un'altra è farsi coinvolgere dal tono, dall'alterazione timbrica, dal modo in cui sono pronunciate certe parole e trattate alcune frasi (masticate, digrignate, sibilate, sospirate...). Fortunatamente la mia preparazione inglese mi consente, nei limiti, di ascoltare la "musicalità" dei brani e contemporaneamente trovarne le chiavi per un ingresso intratestuale... anche se magari spesse volte mi capita di rivolgere l'attenzione più agli arrangiamenti che alle parole, e viceversa, o di non comprendere certi giochetti linguistici e riferimenti culturali (tanto per generalizzare un po') americani. E quindi sì, effettivamente per alcuni può risultare più faticoso l'ascolto, ma non per questo bisogna mollare l'album.

synth_charmer alle 17:19 del 6 aprile 2011 ha scritto:

RE: "la mia preparazione inglese"

ne avrei tante da raccontare, ma al momento mi viene in mente solo "paracciuts"

Filippo Maradei (ha votato 9 questo disco) alle 17:55 del 6 aprile 2011 ha scritto:

Sì ma se vuoi fare il pignolo sula pronuncia almeno fallo bene: "perasciuts", non "paracciuts" XD

loson alle 18:11 del 6 aprile 2011 ha scritto:

"E' un disco tremendamente chiuso, troppo geloso della sua mitologia. Chiede di non farsi ascoltare quasi mai." ---> Ecco, la penso proprio così. In più è anche lungo e brutto, per cui noni. ;D

Scherzacci a parte, è un disco che non fà proprio per me. E io sbrodolo sia per Roy Harper che per Buckley senior (oltre che per quei depressoni dei Red House Painters), per cui non è che detesti a prescindere le lunghe meditazioni acustiche. E' che qui proprio non ci sento nulla che mi attiri, che mi dia un motivo per continuare nell'ascolto. Mi pare un involucro vuoto. Detto ciò, non posso esimermi dal fare i complimenti a Paolo: una recensione vibrante ma minuziosa nell'analisi; si sente che è frutto di riflessione, cura e dedizione. Talmente bella che uno si pente di non apprezzare altrettanto il disco.

ivpasqua (ha votato 9 questo disco) alle 0:04 del 15 aprile 2011 ha scritto:

brividi

Avere qualcosa da dire. Ecco la chiave di questo disco. Usare la musica per esprimere un disagio, per parlare di dolore, per sognare e immaginare come avrebbe potuto essere. Brividi. Uno dei migliori dischi che ho sentito da tantissimo tempo. Sweetheart I ain't your Christ è la canzone che mi emoziona di più.

Alessandro Pascale (ha votato 8 questo disco) alle 12:09 del 9 maggio 2011 ha scritto:

incantevole davvero.

bill_carson (ha votato 3 questo disco) alle 19:10 del 19 giugno 2011 ha scritto:

come ha scritto Pitchfork qualche tempo fa...

c'è chi considera la chitarra acustica La Verità. Ecco: non io.

luca_hagakure (ha votato 10 questo disco) alle 14:28 del 26 giugno 2011 ha scritto:

10

recensione perfetta, concordo perfettamente sul finale. e per fortuna faccio parte di quelli che hanno la fortuna di apprezzarlo, per me è già qualcosa di insuperabile.

se avete dei dubbi io andrei a vedere questo live su youtube.....

bill_carson (ha votato 3 questo disco) alle 10:56 del 27 giugno 2011 ha scritto:

la qualità del disco

non si giudica dal live. sono due dimensioni distinte. il giudizio lo si dà sull'opera, non sull'artista.

fabfabfab (ha votato 9 questo disco) alle 16:06 del 27 giugno 2011 ha scritto:

RE: la qualità del disco

E vabbuò Ira ma non è che nel video esegua canzoni di Booney M (hihiih idolo definitivo sto Pearson, diciamocelo), suona il suo disco, e anche in maniera abbastanza fedele.

4AS (ha votato 2 questo disco) alle 19:01 del 28 giugno 2011 ha scritto:

Purtroppo non riesco a trovarci qualcosa di interessante, che possa coinvolgermi. Si, è vero, ha delle cose da dire (ne abbiamo tutti) ma non sa come dirle, e si chiude in un monologo prolisso che di musicale ha ben poco: si tratta semplicemente di confessioni accompagnate da una chitarra acustica. C'è un timido tentativo di aprirsi alla melodia in "Sweetheart I Ain't Your Christ" e "Country Dumb", ma sanno di muffa, mi emoziona di più la messa cantata delle 11 (purtroppo non è una battuta). Il tutto gira a vuoto, e la lunghezza eccessiva dei pezzi (ma poi perché dilungarsi così tanto? Neanche ci fossero chissà quali cambi di tempo... spesso ripete le stesse cose pedissequamente) è immotivata. Però vedo che per molti di voi questi sono pregi, e allora AMEN, il problema è mio.

valvonauta (ha votato 9 questo disco) alle 13:07 del 22 settembre 2011 ha scritto:

la prima volta che l'ho ascoltato facevo difficoltà a comprenderlo, ma con i testi davanti è stato davvero tutta un'altra cosa. qualche tempo fa avevo anche provato a tradurlo, se a qualcuno può interessare la traduzione integrale del disco la potete trovare qui:

http://indietranslations.com/2011/09/22/josh-t-pearson-last-of-the-country-gentlemen-traduzione-integrale/

Filippo Maradei (ha votato 9 questo disco) alle 13:21 del 22 settembre 2011 ha scritto:

RE:

Bellissima iniziativa, valvonauta: appena ho qualche minuto libero, mi ci tuffo volentieri.

Filippo Maradei (ha votato 9 questo disco) alle 14:00 del 22 settembre 2011 ha scritto:

Mi sono permesso di aggiungere dei video (bellissimi), già che c'ero. Enjoy them.