Laurie Anderson
Homeland
Ci sono copertine belle e copertine brutte. Quella di “Homeland” appartiene senz'altro alla categoria delle copertine brutte. Attenzione però, con le copertine non si deve scherzare: possono sembrare semplici riquadri di plastica e carta, o pixel, che a rigor di logica non dovrebbero condizionare (nel bene e nel male) l'ascoltatore... e infatti il più delle volte rimangono tali. Ma poche altre volte, inevitabilmente, si finisce con almeno rimandare di qualche settimana, mese, anno, l'ascolto di un album con copertina brutta per il semplice fatto che ci sono altri album con copertina bella (o normale, tiè) ad avere la precedenza in sala d'attesa. Provate a essere una signora bruttina di una certa età che chiede aiuto a un personal trainer in una palestra: matematicamente le vostre attenzioni verranno posposte a un bel paio di glutei sodi che proprio non riesce a capire il funzionamento di una macchina.
Stessa sorte toccata a Laurie Anderson e alla sua ultima fatica, appunto “Homeland”, uscito a distanza di quasi dieci anni dal penultimo “Life On a String”; stessa sorte perché s'è parlato pochissimo, recensito ancor meno, di un album che è stato per cinque mesi ignorato e scavalcato da altri apparentemente più belli nella sala d'attesa che dicevo prima. Per carità, la Anderson è stata (ed è) sicuramente bella, ma certo coi baffi e i sopracciglioni à-la Elio e Le Storie Tese giocoforza perde qualcosa. Sicuramente c'è un significato dietro quel travestimento, la volontà di creare un alter-ego al maschile di se stessa che incarnasse ironicamente (un buffone, ecco) una delle tante autorità da lei esorcizzate. Una libera interpretazione interessante, che sfugge tuttavia all'occhio e ai suoi capricci.
Ma mettendo “l'arte” da parte, la formula musico-testuale è rimasta pressocché la stessa dell'ormai saggio nonnetto “Big Science”: narrativismo impegnato su più fronti, dalle critiche sociali di un sistema americano sopraffatto dal controllo decisionale dei cosiddetti “esperti”, preso per il culo a più riprese sopra una base synth-ritmata (“Only An Expert”) alle orazioni visionarie e pseudo-apocalittiche sul complesso “io” americano (“Another Day in America”), che prendono forma da una lunga riflessione psicologica - la voce della Anderson alterata roboticamente e accompagnata dall'ugola dolce di Antony (Antony and The Johnsons) - sul sensazionalismo a stelle e strisce e sull'adorazione “del nuovo” come eterno, salvifico, Messìa.
Attorno a questi due pilastri centrali, si sviluppano diversi brani, alcuni più improntati verso un romanticismo a luci (“Strange Perfums”) e ombre (“My Right Eye” e “Thinking of You”), tutti supportati da un delicato groviglio d'archi; altri che raccontano, tra disincanto poetico, illuminismo filosofico e cori del Continente Nero che rimandano a un'instabilità ancestrale, di una vita transitoria, la nostra, costruita dentro i centimetri di una trappola per topi (“Transitory Life”) e della nascita della memoria (“The Beginning of Memory”), antica e bellissima storia cosparsa di un soffocante jazz-noise sul finire, a cui va dedicata qualche riga di testo:
There's a story in an ancient play about birds called The Birds. And it's a short story from before the world began. From a time when there was no earth, no land. Only air and birds everywhere.
But the thing was there was no place to land. Because there was no land. So they just circled around and around[...]
And the sound was deafening. [...]
And one of these birds was a lark (allodola) and one day her father died. And this was a really big problem because what should they do with the body? There was no place to put the body because there was no earth.
And finally the lark had a solution. She decided to bury her father in the back if her own head. And this was the beginning of memory. Because before this no one could remember a thing. They were just constantly flying in circles. Constantly flying in huge circles.
Quello che è riuscita a fare Laurie Anderson non è un semplice album né un album semplice: è la prova, nitida e limpidissima, che Wagner aveva fottutamente ragione quando parlava di Gesamtkunstwerk, di Opera d'Arte Totale, di sintesi tra le arti figurative, drammatiche e musicali; Laurie Anderson, artista visiva, compositrice, poeta, corista, fotografa, maestra dell'elettronica e del linguaggio, è la nuova-vecchia “Eschila” del XXI secolo.
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