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R Recensione

6,5/10

Niccolò Fabi, Daniele Silvestri, Max Gazzè

Il Padrone Della Festa

Chi vuole scrivere impari prima a leggere. Ci sono gli assembramenti e ci sono le file. Gli organismi del tutti per uno e gli insiemi dell’uno per tutti. Le ammucchiate del che me tocca fa’ pe’ campa’ e le amicizie di lungo corso. A scegliere la seconda opzione per ogni bivio, viene fuori qualcosa che ricorda da vicino Niccolò Fabi, Daniele Silvestri e Max Gazzè, i tre menestrelli della canzone d’autore illuminata quanto basta, interpreti che scelgono di non scegliere tra galanterie elitarie e generosi popolarismi. Beninteso: Fabi-Silvestri-Gazzè. La trinità, profana, rimane disgiunta dall’Uno: i contorni di ogni individualità si disegnano chiari e definiti sullo sfondo di un moniker che non riassume, ma enumera. Si leggerà in giro che “Il Padrone Della Festa” era un disco inevitabile, pronosticabile con largo anticipo, esito manifesto di un sodalizio artistico che ha portato le parabole dei tre musicisti ad intersecarsi un infinito numero di volte negli anni: una risultante ovvia soprattutto in questo preciso istante, in cui la scrittura di Fabi e Gazzè sembra aver imboccato una china discendente, mentre Silvestri è l’incognita-non incognita in grado di ammorbidire certi slanci poetici troppo pronunciati.

Fosse anche veritiera questa chiave di lettura (da abbracciarsi rigorosamente per chi si nutrirebbe della sola “Vento D’Estate”, una delle hit involontarie più rilevanti degli ultimi trent’anni di classifica tricolore), rimane tuttavia inevasa l’analisi nel dettaglio di un lavoro che, a conti fatti, non si svela così semplice come sarebbe potuto sembrare di primo acchito. Certo, “Life Is Sweet” è singolo di straordinaria (ed inusitata) potabilità: (de)merito di una ritmica midi che fa incanalare il basso di Gazzè in bolse linee melodiche, laddove i due compagni di merende – Fabi peripatetico, Silvestri roboante macchina di lemmi a getto continuo – si limitano al compitino. Certo, la title-track è un toccante manifesto di sensibilità sociale d’altri tempi (roba da far ascoltare in loop a un Camillo Langone random) che, purtroppo, vanifica il tratteggio lirico in un impasto accomodante di acustiche, pianoforti e riverberi. Certo, “L’Amore Non Esiste” è il brano che, più di ogni altro, fornisce un esaustivo e consuntivo spaccato sulle modalità di composizione della proclamata scuola romana: attenzione all’arpeggio, linguaggio di metafisica quotidiana, buona varietà d’arrangiamento (belle le slide d’accompagnamento).

E poi? Poi il proscenio è per Fabi-Silvestri-Gazzè, ognuno con le sue peculiarità, nell’amichevole rispetto dell’altro. Per ognuno, ça va sans dire, è possibile individuare un vertice specifico, picco nell’economia dell’intero disco. Niccolò coglie il centro con “Giovanni Sulla Terra”, meravigliosa progenie del De André etnico (il mandolino che scandisce la resistenza passiva del protagonista è strettamente imparentato col Pagani di “Creûza De Mä”): Daniele sfrutta metafore calcistiche, nel breve stornello strimpellato di “Zona Cesarini”, per cantare di un tira e molla esistenziale governato dal polo femminile (una propensione all’esaltazione della donna, questa, che attraversa sottopelle l’intera tracklist); Max rovescia l’happy end in una palpitante geremiade adornata da paratie funebri di ottoni, “Arsenico”, taglio drammatico e teatrale ad un tempo. Sui generis, per chi scrive, dove spunta il baffo di quest’ultimo “Il Padrone Della Festa” decolla – si senta, ad esempio, l’ariosa parentesi aperta nell’agitato flamenco di “Spigolo Tondo”, a marca Silvestri, o le robuste chitarre brit di “Come Mi Pare”. Fabi, dal canto suo, riscatta le sbrodolature acid funk de “L’Avversario” (vigorose frizioni di basso e pirandelliane pirotecnie meta testuali comprese nel prezzo) in una delicatissima “Canzone Di Anna”, arrangiata per archi e tromba alla maniera dei Baustelle di “Amen”.

Il rischio? Che la lezione di stile si tramuti nell’esercizio di navigati cattedratici, che la codifica strabordi nello stereotipo – una trappola in cui i tre cadono proprio ai blocchi di partenza, con gli stucchevoli stoppati in levare di “Alzo Le Mani”. Quel che è certo è che – per contingenza storica e solidità del songwriting – siamo lontani da una riesumazione contemporanea di Banana Republic.

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