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R Recensione

6,5/10

Paolo Saporiti

L'Ultimo Ricatto

A memoria d’uomo, il cantautorato di Paolo Saporiti, il meno italofilo dei songwriter italiani, si è sempre contraddistinto per una grana di intimismo e di indeterminatezza materica che, pur agghindata con diverse mise nel glissare da un capitolo discografico all’altro, finanche nella transizione tra microcosmo indipendente e nobilitazione major, si è sempre mantenuta fedele a sé stessa: scarne pennellate strumentali, una splendida voce di contorno, aggiunte varie ed eventuali secondo uno spettro brit che infesta, ed influenza, la musica di base. Arrivato, con “L’Ultimo Ricatto”, al quinto disco in studio, due anni dopo un “Alone” che sorpassava a sinistra Damien Rice per approcciare piuttosto dolenti introspezioni drakeianeUniversal permettendo, s’intende –, Saporiti sceglie di colorare ulteriormente il suo percorso evolutivo, concretizzando in collaborazione un solido rapporto di amicizia e stima artistica con il geniale Xabier Iriondo (autore, in questo stesso periodo, dell’esordio solista “Irrintzi”) che, da bravo cicerone, offre il suo apporto produttivo nella scelta degli arrangiamenti e nel taglio conclusivo dei suoni.

Se, dunque, la polpa non viene intaccata da mutazioni significative (le sfumature espressive della voce di Saporiti, capace di abbracciare più estensioni nel corso di un solo brano, sono al solito accompagnate da una discreta tecnica chitarristica, che piace di più nel fingerpicking piuttosto che nel canonico susseguirsi di accordi maggiori e minori), è il contorno a frammentarsi, segmentarsi, acuminarsi. Aggiunte importanti, appariscenti senza alcun dubbio, che fugano da subito il rischio di essere considerate semplici “appendici” incollate a brani di per sé autosufficienti. Il gioco dei contrasti distonici di Iriondo trova ampio spazio nel trattamento di “I’ll Fall Asleep”, essenziale quadretto voce e chitarra disturbato da saturazioni elettroniche e dissestato dagli spasmi jazzistici della batteria di Cristiano Calcagnile, nella splendida “War (Need To Be Scared)” – partenza in sordina, lenta carburazione in un crescendo di espressionismo melodico, acustica saltellante ricalcata dagli archi, una chitarra elettrica a torcersi buffamente sullo sfondo –, nei ¾ schioccanti e giullareschi di “We’re The Fuel”, nel crollo verticale della seconda parte tribale e westernata (in sintetico) di “Stolen Fire”. Saporiti pone le fondamenta per costruzioni a tratti invero fragili, come nella reductio ad unum ambientale di “In The Mud”, altrove ben piantate e sanguigne, come quando Stefano Ferrian incendia, al sax, il racconto concentrico di “The Time Is Gone”, in altri punti ancora in bilico tra forma armonica e sperimentazione insistita, come nella mareggiata di “Deep Down The Water” – aperta e chiusa da uno sciame di archi in neoclassici voli free – e lungo il banjo scarnificato di “Sad Love/Bad Love”, americana al tempo del colera.

L’Ultimo Ricatto” è sempre pronto a stupire, ad anteporre la ricerca di una soluzione personale al supino adagiarsi su stilemi da tempo mandati a memoria, dovesse questo rendere necessario anche una fruizione rallentata di scansioni melodiche e temporali. Tant’è che, quando arriva l’ora delle più classiche canzoni à la Saporiti, si avverte la mancanza di un trattamento caustico, esterno, in parallelo, che ne faccia risaltare lati nascosti: “Sweet Liberty” colpisce da subito per la sua efficace sobrietà, ma il noise ambientale che ne articola lo sviluppo avrebbe potuto essere convogliato in forme più efficaci; lo stesso valga per la cascatelle di note di “Never Look Back” e per i pigolii di “F.R.I.P.P.”, che riportano la mente ad un passato recente non privo di fascino, ma sommariamente alieno ad un nuovo percorso che, se preso seriamente in considerazione, potrebbe portare alla maturazione definitiva del cantautore milanese.

È un ultimatum a sé stesso, allora. Un ricatto di cui è, allo stesso tempo, promotore e vittima.

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