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R Recensione

7,5/10

Paolo Saporiti

Paolo Saporiti

Come il Nerone di Kavafis, i personaggi di Paolo Saporiti (autobiografici?) aspettano, non si sa che cosa, e si illudono di stornare il proprio destino. Si relazionano fra di loro in maniera crudele, spesso possessiva, che giunge ad un passo dall’umiliazione fisica e dalla violazione dell’integrità corporea: la controparte di un sentimento ambivalente e soffocante. Il narratore si sente intrappolato, chiuso nei propri difetti e nelle proprie ansie, come l’eroe principale di un’epopea romantica a tinte fosche: quello che muove le azioni e i pensieri è spesso un tumulto interiore, uno strappo, un contrasto insanabile. Tradiscono persino la luna e il vento, che delle proprie macchinazioni sono artefici e vittime, succubi e beneficiari. Attraverso simili atti di abbassamento morale e carnale i personaggi infine, si disgiungono, e sembrano pervenire ad una libertà che, tuttavia, è tutto tranne stasi e pacificazione: l’approdo ad un porto quanto mai tempestoso, la forzatura di determinate dinamiche di attrazione e repulsione, un altro giro di ruota, infine.

Un disco così caratterizzato sul piano emotivo non può non vivere di lacerazioni e contusioni anche sul versante musicale. Il che, per certi versi, non stupisce, se si considera la coraggiosa svolta intrapresa dal caparbio cantautore milanese già col precedente “L’Ultimo Ricatto”, coprodotto e coarrangiato dal ciuffo mefistofelico di Xabier Iriondo. La sua riconferma è il primo passo verso una postrema disgregazione dell’impianto prettamente narrativo: un superamento delle acerbe distonie del capitolo precedente e la prosecuzione di una lotta interna, tra melodia e dissonanza, tra classicità e tentazioni impro, tra l’intimismo raccolto tipico del “primo” Saporiti e la rigogliosa, appariscente manifestazione di arrangiamenti sempre più indipendenti e ribelli, sempre più arditi nel loro caparbio distinguersi sullo sfondo, come sceneggiature che prendono vita d’un tratto ed inglobano i suoni, le luci, gli attori principali.

A tutti gli effetti, è una ripartenza. Un rivoltamento quanto mai artistico, teatrale nell’animo, iconoclasta nello spirito, sprezzante delle convenzioni al punto di rinominarsi – catarsi o anonimato? – con il semplice nome del suo artefice. Quello principale, almeno, il costruttore del nocciolo di pezzi anche stringati, ma arricchiti da una pletora considerevole di collaboratori. Il più incisivo, contraltare demoniaco della voce d’angelo Saporiti, è certamente l’eclettico Cristiano Calcagnile dietro le pelli. “Come Hitler” sembra un Buckley sotto acido, un surreale bozzetto in fingerpicking annientato dalle vigorose aritmie free jazz delle percussioni: uno schema che si ripropone, non a caso, anche in “Ho Bisogno Di Te”, resoconto taglientissimo di un teso scambio di battute tra il songwriter ed un suo spettatore “critico”, che contrappone, all’alternarsi di arpeggi in minore (“facile cantare su questi accordi”), un controcanto ritmico nervosissimo, ed un respiro d’archi del tutto cinematico, rinforzato poi da un trionfo orchestrale. La dissociazione è devastante in “Sangue”, un peana funebre che viene trafitto da una seconda parte, minimale e classica, su tre accordi standard. Lo zampettare stoppato dell’acustica, vero marchio di fabbrica di Saporiti, riemerge in una fantastica “Io Non Ho Pietà” (ritornello rabbioso e vertiginose, stridenti velature d’archi) e nel rovesciamento sincopato di “Erica”, un nostos affidato ai flutti patetici dei violini e sottoposto ad una trazione drammatica a tratti insostenibile.

È confortante, al netto di quanto già detto, ritrovare un Saporiti anche più sobrio, raccolto, melodico: quasi a testimoniare che la metamorfosi cambia il vestito, ma non l’indossatore. Valgono a poco le screziature elettroniche di “Come Venire Al Mondo”, ancora un atto d’amore nei confronti del Buckley “liquido” (l’effetto è certamente più stordente sul vocoder singhiozzante di “P. S.”): “L’Effetto Indesiderato Di Una Violenza” si serve del materiale testuale strettamente indispensabile, liberando poi le briglie di un lungo, elaborato commento strumentale a più voci (Paolo Spaccamonti che immagina di rimusicare il Doktor Živago non dovrebbe essere molto lontano da questi lidi); “Il Vento Che Dice Addio Alla Luna” si inerpica, zingaresca, su di una china pericolosa, quella dello stornello francese, ma ne esce alla grande; “In Un Mondo Migliore”, infine, è la purezza cristallina dell’impasto deandreiano tra bouzouki ed acustica, unico quadretto manifestamente rasserenato nel mare magnum di tempeste dell’intero platter.

Preparate le armi per il prossimo capitolo. Potrà essere necessario schierarsi per il Paolo Saporiti cantautore o il Paolo Saporiti avanguardista. Sarebbe auspicabile che la lotta coraggiosa di un outsider riscuotesse tutta l’attenzione che finalmente merita.

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Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 2 voti.
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Suicida 7,5/10
Cas 7,5/10

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Cas (ha votato 7,5 questo disco) alle 18:41 del 21 ottobre 2014 ha scritto:

Disco notevole, raffinato e complesso. Sembra di assistere ad una sorta di flusso di coscienza sonoro... Ottima proposta! Peccato riscuota poca considerazione...