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R Recensione

6/10

Regina Spektor

What We Saw From The Cheap Seats

Regina scende dal trono e comincia a fare la principessa, ad incapricciarsi, ad impersonare le moine di una ragazza viziata che vuole arrivare al dunque senza sapere bene come. Un po’ estrosa lo è sempre stata, Regina, ma di un estro bambinesco, delizioso, elegantissimo, timido dentro e pienamente, artisticamente aggressivo fuori, sia che accarezzasse con fare voluttuoso i tasti dello Steinway & Sons osservata a vista da Julian Casablancas, o che diventasse un femmineo Jerry Lee Lewis della Siberia per bruciare la sua arte in divampanti palle di fuoco. Qualcuno lo aveva già detto, che come koroljeva Regina stava perdendo in autorità, ma le illazioni sopra “Far” erano spazzate via dalla realtà fattuale di un disco granitico e fantasioso nel suo rimanere ancorato ad una salda idea di pop song “illuminata”. Gli ingredienti, dopo tre lunghi anni, provano a rimescolarsi in “What We Saw From The Cheap Seats”, ma i risultati sono ben lungi dal coinvolgere in profondità.

Se non fosse per la splendida voce della Spektor, eccezionale performer in grado di rivitalizzare anche i passaggi melodici più smorti, e per un approccio strumentale che – nell’autocoscienza di non poter più scagliare tizzoni anarcoidi come un tempo – continua a rimanere uno dei più completi ed avvincenti nell’ambito del songwriting al femminile della Grande Mela, ci sarebbero tutti i presupposti per intabarrarsi in un’estenuante filippica contro il depauperamento del contenuto specifico delle sue canzoni. “Don't Leave Me (Ne Me Quitte Pas)” riprende, a undici anni di distanza, un vecchio brano di “Songs”, arrotandone i gallicismi al limite dell’onomatopea ed enfiandone l’arrangiamento con una colorata marcia per ottoni: l’insistere compulsivo sulla forma chorus svilisce, però, il messaggio armonico del brano, che si annacqua e perde di forza. Quando partono le ballate strappalacrime c’è da temere il peggio. “How” batte sul tasto dell’amore infranto dall’invalicabile ostacolo della morte, con un avanzare sottile e discreto che è puro stereotipo. Anche “Firewood” addormenta i ritmi in una leggera spirale presa per mano dall’ugola d’oro di Regina, ma lo schema meccanico del lento in minore viene spezzato solo in pieno divenire, quasi per caso, quando lo stacco del brano assume un taglio cabarettistico e le volute strumentali si ammonticchiano in pile di beffardo neoclassicismo. È un attimo: solo un attimo. “Small Town Moon”, pur non disprezzabile, riporta tutto a casa, nell’alveo dell’aurea mediocritas dell’estroso singolo pop – tra meditazione ed accelerazioni – sulla scia di “Fidelity” e “The Calculation”.

Si è letto, in giro, che “What We Saw From The Cheap Seats” non sia altro che una raccolta di b-sides note da tempo a chi bazzica i concerti della bella e talentuosa musicista russa. In alcuni casi, riscontri alla mano, l’insinuazione si veste di inappuntabilità, come all’apparire del primo singolo “All The Rowboats”, noto almeno a partire dal 2004. Il vestito che qui gli cuce addosso Regina, tuttavia, è ben distante dalla spartana versione voce e piano rintracciabile sul web: echi di batteria elettronica, inquietudine dark, sprazzi di futurismo industrial – “Machine” ha fatto scuola, fortunatamente – ed un magnifico testo sulla “prigionia” statica dell’arte espositiva. La Spektor, se conta solo su sé stessa e non su fattori esterni, è in grado di fare ancora ciò che vuole, come e meglio di prima. Ardito ma azzeccatissimo l’accostamento tra “Open” – un tuffo di lacerante introspezione psicologica per note singole, squassato da rumorismi vocali e mendacemente rasserenato da solenni schiuse melodiche – e la solarità bambinesca, concreta di “The Party”: irresistibile Regina alla prese con il farsesco inglese di una popolana italiana nel teatro/canzone di “Oh Marcello”, un carillon stonato travasato in parodistica mise festaiola, con interpolazione del chorus di "Don't Let Me Be Misunderstood" di Nina Simone.

Davvero, la nostra zarina non si deve sentire addolorata nel sapere, in “Patron Saint”, che il vero amore esiste: senza l’indulgenza che sola si riserva ai grandi artisti e alle proprie passioni personali, probabilmente, il giudizio sarebbe stato – in proporzione – più giusto e più severo.

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