V Video

R Recensione

6,5/10

Strand of Oaks

Heal

Di Strand Of Oaks, ossia Timothy Showalter, su queste pagine si era già parlato nel 2009, al tempo del suo debutto (“Leave Ruin”), che si inseriva in un filone di folk dimesso e tradizionale allora ben più in voga di adesso, quando anche capifila come Bon Iver o Iron And Wine hanno cambiato strategie sonore. E però il disco di Strand Of Oaks si segnalava per una sua curata marginalità, un po’ dovuta alla provenienza (Indiana) e alla storia personale di Showalter, un po’ a un gusto melodico intimo e in tono minore.

Con “Heal”, quarto disco di Showalter e primo per la Dead Oceans, il registro cambia in modo netto, non solo attraverso traiettorie più scure ed elettroniche che già i dischi precedenti (“Pope Killdragon”, 2010, soprattutto) tracciavano, ma anche grazie a sonorità più muscolose, ormai distanti dai canoni folk: in “Heal” c’è spazio per chitarre ruvide (“Goshen ‘97”), batterie poderose che muovono bassi disco un po’ Arcade Fire su distese di synth (“Heal”), assoli electro (“Same Emotions”), e un cantato cancrenoso e pieno di rabbia rappresa, giustificata dal sostrato memoriale del disco, che è una sorta di rivisitazione liberatoria della propria adolescenza. La prima parte dell’album batte e convince, con il contrasto tra i ritmi potenti e la voce fragile di Showalter, non a caso effettata qua e là per evitare un effetto autoparodico.

Sta di fatto che il disadorno e schivo Strand Of Oaks degli esordi sembra aver acquisito la sicurezza dei singer songwriters di serie A, e così a volte sembra ricalcare uno Springsteen d’annata (“Shut In”), giocando più di piano che di chitarra (“Plymouth”, una “Wait For Love” pronta per le radio); peccato che in altre occasioni la voglia di strafare, magari per duplicare alcuni suoni più grezzi della sua infanzia, lo porti a essere troppo loud, fuori luogo (“Mirage Year”, a tratti “JM”, per Jason Molina, prolungata in eccesso).

Eppure tutto, anche questi momenti scentrati, concorre a costruire un disco che somiglia alla spallata orgogliosa del timido che ha subito troppo. D’altronde è il titolo stesso a denunciare la natura terapeutica del disco. E se l'apparenza di Showalter (vd. video sopra) rimane qualcosa di mostruosamente ibrido tra il cantautore iperbarbuto e il metallaro con troppe birre in corpo, l'impressione è che dentro molto sia cambiato. In meglio. E con la possibilità, vista la crescita fin qui, che il meglio debba ancora venire.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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Franz Bungaro (ha votato 7 questo disco) alle 9:12 del 26 giugno 2014 ha scritto:

Avevo letto che il cambiamento, radicale, del sound e dell'atteggiamento musicale di Showalter, fosse dovuto al fatto di essere miracolasemente sopravvissuto ad un incidente stradale, credo l'anno scorso, e dalla volontà di voler festeggiare la vita, ritrovata nel momento in cui stava per perderla. Agli ammiratori della prima ora quest'album suonerà come una sbruffonata, una cafonata, un delirio di qualcosa...io l'ho apprezzato, così come apprezzai il delirio di J. Grant l'anno scorso. L'album non è mai a livelli altissimi, anche se JM, sarà per la dedica a Molina, sarà per il testo, sarà per l'ambiente che ricrea, mi piace tantissimo, l'ascolto a ripetizione da una settimana e l'immagino eseguita da Molina stesso, un godimento...poi per il resto sottoscrivo il lucidissimo Targ!