Tom Waits
Bad As Me
Parafrasando il vate Bukowski ogni nuova incisione gutturale del signor Waits è come fare un lancio col paracadute, se non si apre con chi t’incazzi? Un bel problema con quelli che sono il copyright di loro stessi, imperituri e impermeabili alla sabbia delle clessidre. Ah, il vecchio Tom. Lui la caducità del tempo l’ha prima fottuta nei suoi rugosi tratti bestiali e poi riposta per bene dentro il bagagliaio della Buick sporco di gingilli e souvenir da rigattiere. “Bad As Me” ha lo struggimento d.o.c. e l’unicità dell’ennesimo viaggio nei tempi e nei luoghi vagheggiati da quest’uomo fatto orco e poi nostalgico borderline di fumosi night-club e poi ancora accorato Caronte di anime perse. Storie vezzeggiate di dropout senza gloria e di eterni perdenti, un’umanità fessa e improbabile che t’inchioda giù in un sottoscala, ad ascoltare questo bofonchiare cavernoso tra sorci e polvere, romanzacci usati e attrezzi da officina, poster di Bettie Page e un’infinita malinconia sepolta sul fondo vuoto della bottiglia. La macchina del tempo waitsiana è assolutamente fuori sincrono, sfasata, atemporale rispetto al ricordo proustianamente inteso, appare ma non è mai davvero lo stesso posto dove eri già stato perché il passato del Nostro è un’utopica idealizzazione mentale. Una trasfigurazione permanente degli anni Quaranta e Cinquanta, rimasticati con fangosa raucedine, del cosiddetto pre-war folk, di Memphis Slim, delle sale da ballo durante la seconda guerra mondiale, del giovane James Brown soul-man e del rock and roll morto sulle pianure di Clear Lake.
“…I will have satisfaction, i will be satisfied. Now Mr. Jagger and Mr. Richards i will scratch where i’ve been itching…Before i’m gone…”
Trascorsi i fatidici sette anni dai clangori del post-blues cubista e intimamente Beefheart di “Real Gone” c’era necessità del ritorno a casa davanti il caminetto, della coperta calda e del ghigno da pazzo, che rispunta mefistofelico con tutto l’armamentario romantico-pulp del giovanotto 60enne nato sul retro di un taxi. L’orco torna a grugnire nel music-hall dispotico di “Chicago”, una tonitruante cartolina da “Swordfishtrombones” di fiati serial-killer e ritmo omicida, tanto per ribadire che la sanità mentale è un’imperfezione (citazione n.2). “Raised Right Men” puzza invece di biblica apocalisse blues, un po’ se il Nick Cave mannaro di “The Firstborn Is Dead” fosse uscito dagli inferi per catechizzarci tutti (e infatti è successo), intanto che Tommaso fa l’Howlin’ Wolf della situazione, biascica sommesso e implorante con Flea al basso e un organo stentoreo a temporeggiare.
“I had a good home but i left…I had a good home but i left, right, left. That big fucking bomb made me deaf, deaf. A Humvee mechanic put his Kevlar on wrong. I guarantee you’ll meet up with a suicide bomb…”
In “Bad As Me” c’è il sapore ritrovato del Tom che t’aspetti, che sa aspettare (Waits!) il momento giusto per azzannarti, e ulula alla luna recalcitrante nella ballad anema e core “Talking At The Same Time”, l’ennesimo affresco surrealista di soulness rusticana così vicino, così lontano, così uguale a una dozzina abbondante e comunque sempre imprescindibile, puro nelle acustiche rugginose, sax, trombone e piano lacrimevole. Le ballate assassine che piangono tutte le lacrime del mondo, un classico dell’uomo di Pomona. Un poker d’assi che fa saltare il banco con l’incantesimo alt-folk dei Calexico notturni di “Face To The Highway”, una cinematografica “Back In The Crowd” che t’immagini John Wayne a cavalcare lento, lento nella Monument Valley e il sentimentalismo spartano di “Kiss Me”, semplice e ruffiana come un grammofono a 78 giri che gracchia sulla puntina fregandosene di tutti, quando l’orco-sexy invoca farabutto alla bella “…I want you to kiss me. Like a stranger once again, kiss me like a stranger once again. I want to believe that our love’s a mystery. I want to believe that our love’s a sin…”
Nel caravanserraglio 2011 del Waits che t’Aspetta ci trovi i consueti fuochi d’artificio antidiluviani, il divertente split garage Bo Diddley-Cramps “Get Lost”, una “Satisfied” da Stones evacuati sotto i V-2 tedeschi del ‘44, il riff furfante di Keef che grattugia sul caos organizzato della pacifista “Hell Broke Luce”, e poca routine di senilità incipiente: prendere o lasciare il percussivo stomp-blues del didascalico singolo omonimo e un certo manierismo (di classe, of course) che aleggia in “Pay Me” e “Last Leaf”, quest’ultima con Richards alla voce, istantanee seppia orfane addirittura dei remoti “Blue Valentine” e “Small Change”. Partecipano vigorosi al baccanale retrò il fido Marc Ribot, Larry Taylor, Les Claypool, Casey Waits alla batteria, Clint Maedgen al sassofono, Flea e Marcus Shelby al basso e David “Los Lobos” Hidalgo, produce e collabora ai testi l’attenta consorte Kathleen Brennan, che stavolta voleva dodici compatti brani e guai a contraddirla, niente cazzeggio né lungaggini artistoidi: qualcosa tipo le confezioni delle uova, economiche e pronte all’uso “perché la gente non ha tempo”. Diavolo d’un Tom. Lui, il falso cattivo, il Mangiafuoco di un circo espressionista, il nero mancato con la Grande Depressione nel cuore, sputa fiamme, bestemmia santi, ruggisce bitume e smuove le sue ossa spigolose di chitarre, percussioni, banjo, tablas e organo a pompa. Venghino signori, il freak show è tornato in città. Se cercate un riassunto d’autore di tutti i Tom Waits possibili, un parente stretto delle Variazioni Mule, “Bad As Me” è il vostro porto, la conferma che il genio s’illumina nell’uomo capace di dire cose profonde in modo semplice (citazione n.3). La solita musica per organi caldi, il solito Waits but we like it.
“…Take my picture from the frame, and put me back in the crowd. Put the sun behind the cloud, put me back in the crowd…”
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