R Recensione

8,5/10

Buffy Sainte-Marie

Illuminations

Era troppo precoce per i tempi. Piacque agli studenti d’arte e di musica elettronica ma fu uno shock perquelli che mi stimavano come cantautrice folk”. Così Buffy Sainte-Marie ha recentemente ricordato l’impatto tremendo che “Illuminations” ebbe sulla sua carriera e sul pubblico abituato ai suoni ben più addomesticati dei suoi primi lavori. Eppure – o forse proprio per questo – l’album in questione è un capolavoro inaudito e riascoltato oggi suona spaventosamente attuale.

Prima però di parlarne in modo più approfondito gioverà ripercorrere sommariamente alcune tappe fondamentali della crescita artistica di questa grande cantautrice (una delle più influenti e criminalmente sottovalutate di tutti i ‘60s), se non altro per delineare con più chiarezza le diverse spinte centrifughe che attraversano la sua musica e che hanno reso possibile questa straordinaria escalation creativa.

Ricordata dai più per alcuni brani folk come “Now That The Buffalo’s Gone”, “My Country ‘Tis Of Thy People You’re Dying” e “The Universal Soldier”, nei quali si faceva portavoce della condizione degli indiani nativi americani in un paese che li aveva messi alla berlina dalla società e dalle istituzioni, Buffy Sainte-Marie si è sempre dimostrata un autentico spirito inquieto, ansioso di percorrere strade diverse e cimentarsi con sonorità all’epoca tutt’altro che accomodanti.

Dotata di una voce dal timbro cristallino, con una notevole propensione per gli alti e un vibrato ricchissimo di sfumature, la giovanissima cantautrice – indiana nativa ma cresciuta nel Maine con la famiglia adottiva - si è imposta all’attenzione del pubblico folk con uno stile assai personale, che faceva tesoro delle forme canoniche della folk-song e sfruttava accompagnamenti chitarristici semplici ma efficacissimi nell’enfatizzare la drammaticità del canto e dare corpo a quelle liriche idealiste, velate di astio per le ingiustizie subite dal suo popolo ma, allo stesso tempo, cariche di speranza per un futuro migliore.

Tutto ciò è ben espresso dall’eccellente esordio “It’s My Way”, datato 1964, dove la musica scarna e volutamente spartana riesce a canalizzare un’imponente flusso di sfumature ed emozioni senza (quasi) mai scadere nella banalità del comizio fine a se stesso. Sorprende, anzi, l’insospettabile eterogeneità dei rimandi (in primis folk appalachiano e blues acustico delle origini) nonchè l’ampio spettro delle tematiche affrontate dai testi, capaci di svariare dalla fiera esaltazione del popolo indiano alla ferma condanna delle droghe (si ascolti “Cod’ine” che diverrà uno dei tanti cavalli di battaglia dei Quicksilver Messanger Service).

È proprio con il sound epico ma disturbante di quel disco e dei successivi “Many A Mile” (‘65) “Little Wheel Spin And Spin” (‘66) e “Fire & Fleet & Candlelight” (‘67) – quest’ultimo viziato da inutili arrangiamenti orchestrali - che Buffy Sainte-Marie è arrivata ad incarnare l’ideale nativo americano in seno al Greenwich Movement e a ritagliarsi uno spazio tutto personale nell’affollata scena musicale di quegli anni. Anni inquieti, esattamente come la giovane ragazza canadese che, divenuta ben presto insofferente verso le restrizioni del circuito folk (Bob Dylan docet) e avida come non mai di nuove esperienze musicali, abbandona il carrozzone e si butta a capofitto nelle sue nuove passioni: le sperimentazioni elettroniche e le musiche tribali.

Nel giro di pochi mesi queste ricerche avrebbero generato una delle pietre miliari dei 60s, nonché uno dei segreti meglio custoditi di un 1969 ricchissimo di gioielli più o meno nascosti.  

Coadiuvata dal produttore Maynard Solomon e dal musicista elettronico Michael Czajkowski, Sainte-Marie è riuscita con “Illuminations” a rielaborare gli stilemi del suo cantautorato e condensare oscuri umori psichedelici, acid-folk, spiritual, blues acustico, sonorità classicheggianti e frequenze elettroniche in un unico, granitico monolito di suono. Sfruttando una vena immaginifica apparentemente inesauribile, l’artista è riuscita nell’ardua impresa di rinsaldare i legami fra antico e nuovo, fra sacro e profano (ossia fra ortodossia folk e sonorità d’avanguardia) e, così facendo, ha anticipato di diversi lustri tutta una serie di stili musicali a noi ben più vicini nel tempo.

In questa sua preveggenza, la Sainte-Marie di “Illuminations” è per certi versi affine a Nico, anche se fare paragoni fra queste due cantautrici è sempre un po’ rischioso ed a volte fuorviante: è vero infatti che entrambe condividono la passione per atmosfere “dark” ed hanno contribuito in modo decisivo all’affermarsi di tematiche e sonorità che quasi vent’anni più tardi costituiranno la sostanza stessa del gothic - oltre ad aver dato il “la” a tutto un filone di artiste anche assai diverse fra loro (ad esempio Diamanda Galas e Lisa Germano) che esploreranno con uguale perseveranza gli anfratti oscuri dell’animo umano – ma è altrettanto inconfutabile che le due signore vantino tratti distintivi piuttosto marcati che vale la pena esaminare con più attenzione.

In primis è da registrare una netta diversità nei rispettivi background musicali: non dimentichiamoci che le radici dell’arte di Nico vanno ricercate nell’avanguardia mitteleuropea, nei lieder espressionisti e nella musica indiana, laddove il cuore pulsante della musica di Sainte-Marie resta essenzialmente il folk, seppur contaminato e “deformato” da suggestioni elettroniche e reminiscenze etniche. 

In secondo luogo, mi pare che siano le loro stesse poetiche ad essere sovente antitetiche: tanto la bionda e algida Nico è distaccata e “pietrificata” nell’eternità di un istante protrattosi indefinitamente, tanto la bruna e viscerale Sainte-Marie si cala con fervente ansietà nel misticismo di una realtà (vera o immaginaria?) in continuo divenire; se il canto di Nico si colloca in una dimensione metafisica ed atemporale che nega la vita, ne cristallizza il movimento e ne annienta lo scorrere, la voce di Sainte-Marie è invece tutt’uno con la terra, l’acqua, il fuoco e l’aria. Una voce, la sua, che vive del respiro del mondo, ne assorbe l’essenza magica e ne canta il mistero impenetrabile.

“Illuminations” vibra di un’energia sinistra, magnetica. Il suo esasperato goticismo, il forte appeal mistico e la tensione strisciante che lo attraversano da capo a piedi acuiscono il senso di disorientamento che si prova al cospetto dell’opera. È come essere investiti da una spiritualità che trascende ogni credo e si appropria del nostro essere e, al tempo stesso, assistere sgomenti al vacillare del castello di sabbia che abbiamo eletto a fragile caposaldo delle nostre certezze sensoriali.

Fin dall’iniziale (e superba) “God Is Alive, Magic Is Afoot” siamo catapultati in un rituale pagano in cui Sainte-Marie, vestiti i panni della sacerdotessa, declama la propria adorazione per l’entità benefica che anima il creato e infonde nelle cose il suo alito vitale. Introdotto da una allucinata oscillazione mantrica che – come ogni altro suono elettronico presente nel disco – è stato ottenuto manipolando la voce e la chitarra della stessa Sainte-Marie, il brano segue i percorsi tortuosi del canto, tremolante ed estatico come non mai, e si schiude in un arpeggio acustico di rara bellezza. Inutile far presente che i germi del folk più astratto e metafisico di Charalambides, Fursaxa e Black Forest/Black Sea sono già tutti qui.

All’estremo opposto del disco si situa l’abbandono cosmico di “Poppies” che in soli tre minuti anticipa molte peculiarità del suono dei Dead Can Dance e in pratica inventa i Black Tape For A Blue Girl. I gorgheggi sperduti di Buffy (che usa un registro vagamente operistico di cui la Galas si terrà bene a mente nei momenti più pacati e dolenti del suo repertorio) si annientano in un oceano di echi e deturpazioni sonore, mentre l’abisso di tristezza in cui precipita il tessuto musicale presenta, seppur in forma embrionale, quella peculiare forma di delirio allucinatorio che Tim Buckley eleverà a forma d’espressione prediletta con il mantra di “Lorca”.

Affascinata da un immaginario mitologico e vagamente biblico, Sainte-Marie compone arcane miniature sonore che rimandano ad un passato remoto avvolto dalle tenebre ed intriso di magia: sono esemplificative, in questo senso, il lamento straziante di “Mary” (che sfrutta abilmente un cupo organo liturgico) e la medioevale “The Vampire”, trafitta da crudeli stilettate sintetiche. Si tratta di parabole ancestrali che hanno veramente pochissimi punti di contatto con gli stili imperanti dell’epoca ma che, nel loro mutismo e nella loro marmorea immobilità, costituiscono il punto di partenza non solo per il sound degli Art Bears di “Winter Songs” (di cui “Illuminations” sembra l’antecedente più plausibile) ma anche per lo sviluppo di tutto il folk apocalittico.

Altrove le atmosfere si rasserenano ed emerge un tocco folk più tradizionale, come nella splendida “The Dream Tree” o nello squisito omaggio alla tradizione degli chansonnier francesi di “Guess Who I Saw In Paris”, ma permane il tono estatico, allucinato e stupefatto dell’esecuzione. Di notevole interesse anche “Suffer The Little Children”, con la quale si fa ancor più palese il tentativo di Sainte-Marie di eludere le strutture e dar vita ad ibridi ricchi di fascino: in questo caso sono le progressioni melodiche del flamenco e le suggestioni ritmiche del blues primigenio a compenetrarsi in un amaro canto di rassegnazione, ben espresso dalla irrequieta performance della cantante.

Entusiasmanti sono poi le tre incursioni in territori più marcatamente rock-blues alla Jefferson Airplane (la muscolare ed irresistibile “With You, Honey”, la decadente “He’s A Keeper Of The Fire” e la marziale “Better To Find Out For Yourself” arricchita da un banjo strapazzato a dovere), dove Buffy, mettendo in bella mostra tutta la sua carica iconoclasta, si lancia in prodezze vocali da brivido. È ancora una volta impossibile non pensare alla Galas ascoltando i repentini salti di ottava, le grida strozzate, le infinite modulazioni timbriche che Sainte-Marie dispensa – con invidiabile senso della misura, peraltro – in questi brani. Così come non può passare inosservato l’ennesimo intervento operato sulla materia sonora: anche qui, infatti, le forme tradizionali sono abilmente corrose dai lancinanti vagiti del sintetizzatore Buchla che, con le sue intrusioni inaspettate, si conferma l’elemento capace di accomunare composizioni così variegate e quindi donare un tocco di omogeneità – per quanto destabilizzante – a tutto l’album.

Un ultimo cenno, infine, a due episodi chiave dell’opera: da un lato il rito sciamanico di “Adam” (a cui PJ Harvey deve essersi ispirata parecchio), apocalittico scontro fra un basso distorto e percussioni indiavolate; dall’altro il sorriso celeste di “The Angel”, un brano che Sainte-Marie inventa come soffice ricamo di archi discreti e cori vellutati che si posano su un drone di vibrafoni: un morbido cuscino di sogni, una pausa di angelico splendore in mezzo a tanta cupezza emotiva.

Come anticipato, i puristi folk (già messi a dura prova, pochi anni prima, dal comportamento “eretico” di Dylan) gridarono al tradimento e “Illuminations” passò pressochè inosservato. Una delle sviste più epocali che la storia della musica ricordi, verrebbe da dire, dato il valore assoluto di un’opera capace di leggere come poche la nostra storia e, al tempo stesso, abbozzare un’ipotesi di futuro imminente.

Peccato soltanto che il disco in questione sia, a conti fatti, un episodio isolato all’interno della discografia di Sainte-Marie, la quale, a partire dei primi ‘70s, dissiperà il proprio talento prima in album dall’annacquato sapore rockeggiante (“She Used To Wanna Be A Ballerina” del ’71 e “Moonshot” del ’72, entrambi co-prodotti dal marito Jack Nitzsche) per poi perdersi nel vicolo cieco del pop da classifica. Ma è proprio alla luce della povertà artistica del “dopo-Illuminations” che deve considerarsi saggio custodire gelosamente questo scrigno segreto e gioire instancabilmente di queste dodici splendide tracce. Dodici tracce che brillano di un angelico/luciferino splendore e che, feconde come sono di spunti e sonorità innovative, non solo testimoniano una tormentata ricerca di diverse modalità espressive, ma compongono un affresco di sbalorditiva creatività di cui saranno in molti – volenti o nolenti – a ricordarsi.

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Cas 9/10
sarah 10/10
REBBY 8/10

C Commenti

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Moon alle 23:26 del 29 marzo 2008 ha scritto:

anche Laura Nyro è da annoverare tra le cantautrici più sottovalutate ( e più influenti) della storia....bravo , bell'omaggio, ascolterò senz'altro.

sarah (ha votato 10 questo disco) alle 19:37 del 22 gennaio 2010 ha scritto:

RE:

Eh Sì Moon, per fortuna ci pensa Matteo Losi.... Disco Stupenderrimo.

Ivor the engine driver alle 15:47 del 10 dicembre 2008 ha scritto:

uno dei pochi dischi dei 60 che continuano a prendere la polvere...boh non so a me sembra che tutto sto baillame intorno al disco sia eccessivo. Per carità non dico che sia brutto, forse sarà colpa mia che non riesco ad entrarci, ma a me sembra anche molto meno stupefacente e precursore di quanto si trova scritto in giro. L'idea è avanti, la realizzazione un po' meno, sempre secondo me. Mi ci ributterò sopra queste vacanze e speriamo che avvenga qcosa, chessò magari arriva lo Spirito Santo e rimango incinto!

Cas (ha votato 9 questo disco) alle 19:05 del 13 agosto 2009 ha scritto:

Ottimo, scoperto da poco ma già affascinatissimo e convinto della sua grandezza!

Utente non più registrat (ha votato 6 questo disco) alle 21:40 del 11 ottobre 2020 ha scritto:

Sicuramente l'unico album che valga la pena di ascoltare di questa mediocre cantautrice folk. Carini gli effetti elettronici, ma qui non stiamo parlando di avanguardia piegata al folk, ma di un disco pop (nella sostanza) con qualche bizzarro effetto sonoro - suona una campana? Ecco. Quindi senz'altro decente, ma a mio avviso il grande cantautorato è da ricercare altrove.