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R Recensione

7/10

Dylan Carlson

Conquistador

Il sogno americano, il suo armamentario tematico, la sua traduzione pragmatica. Ombre di violenza, macchie di prevaricazione, abbacinanti apparizioni di spettri mai domati e puntualmente pronti a riaffiorare. La decostruzione, infine: uno smantellamento ideologico in piena regola che si concretizza nel passaggio dal miraggio all’oggetto, dalla fata morgana alla nuda terra. Quello raccontato da Dylan Carlson in “Conquistador” non è solo la traduzione in (poche) note dell’immaginario e quindi concretissimo vagare di un pioniere per le immaginarie e quindi concretissime terre del centro-sud statunitense, né il libero commento sonoro ad un romanzo – quale Blood Meridian di Cormac McCarthy – poco meno che essenziale fonte d’ispirazione l’intera carriera dello stesso Carlson. È, piuttosto, l’ennesimo tassello della messa a fuoco definitiva di una pervasiva ossessione: la cattura del suono americano definitivo, un’enciclopedia della distruttiva epica a stelle e strisce e degli ambienti – naturali, artificiali, sensoriali – che ne hanno accolto le turpi gesta. Una chimera non meno attrattiva dei luoghi che mima fenomenicamente, l’archetipo del lone wolf in lotta coi suoi incubi interiori e con i nemici esterni.

Primo disco realizzato con i propri veri estremi, ad un paio d’anni di distanza dalla sbornia anglo-balladistica di “Falling With A 1000 Stars And Other Wonders From The House Of Albion” (come Coleman Grey) e a quattro dalla splendida soundtrack del neo-western Gold (come drcarlsonalbion), “Conquistador” è un lavoro di potenza pari solo al suo fascino, un vaso di Pandora da cui si alzano e tracimano le vibrazioni delle cento arpe macphersoniane, rapsodie di tempi perduti e forse mai esistiti. L’ossessivo e scheletrico giro di arpeggi della mastodontica title track – una sentenza di morte di contemplativo paesaggismo cajun, un blues catatonico e innaturalmente rimbombante – viene progressivamente sommerso e reso indistinguibile da strati di sovraincisioni (slide e chitarra baritona sono suonate da Emma Ruth Rundle), uno sciamanico ritorno di rumore bianco di grande suggestione. Le chitarre di “Scorpions In Their Mouths”, introdotte dai cupi clangori ambientali di “And Then The Crows Descended” (alle percussioni la moglie di Carlson, Holly), sono micidiali specchi ustori heavygaze (i Jesu alle prese con gli Iron Maiden?), mentre l’attrice solista di “When The Horses Were Shorn Of Their Hooves” appare e scompare all’orizzonte come spiritico simulacro dronamericano della “Lucifer Sam” floydiana. La formazione al completo si ritrova nella conclusiva “Reaching The Gulf”, l’estratto non a caso più lirico dell’intero disco: un blues immobile, quasi cristallizzato, ricco di riverberi chiaroscurali e di soluzioni in maggiore, che sul finale acquista in pompa cinematica e si spegne gloriosamente.

Produce Kurt Ballou dei Converge, garanzia di profondità scenica e pulizia sonora – ergo, sostanzialmente, di giustizia. Se già i precedenti carlsoniani deponevano a favore del loro autore, questo è un disco che sarebbe davvero un peccato tralasciare.

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zagor alle 10:43 del 22 giugno 2018 ha scritto:

Recensione stellare.

Marco_Biasio, autore, alle 14:35 del 22 giugno 2018 ha scritto:

Addirittura! Grazie! Il disco l'hai ascoltato, ti è piaciuto?

zagor alle 10:34 del 23 giugno 2018 ha scritto:

No, ma prestero' ascolto...anche se, devo essere sincero, la band madre non mi ha mai preso piu' di tanto, li ho sempre considerati una versione pallosa dei Melvins ( pur senza arrivare all'estremismo di chi ricorda Dylan Carlson solo per aver fornito quel famoso fucile a Kurt Cobain lol).