Man's Gin
Rebellion Hymns
DellAmerica umiliata e offesa (e perdente) Parte II
Chi vive perdendo non impara mai a perdere. Cerca, dapprima, di ribellarsi, rivoltarsi contro la propria stessa sfortuna, lottando con ogni mezzo di cui dispone: solo in seguito le difese si abbassano e ci si arrende allineluttabilità di una condizione che è immobile condanna, linfima casta, ripudiata e ripugnata, degli sciagurati e dei falliti, la torma dei reietti e dei disadattati. My ne raby, raby nemy!, urlava Majakovskij, giocando sulla fonetica di un celebre slogan sovietico contro lanalfabetismo: noi non siamo schiavi, gli schiavi sono muti. Così Erik Wunder non sceglie solo di abbracciare le male bolge: le canta, anzi, le sbraita, le sussurra, le culla, le comunica. Miseri sì, ma non miserabili. Appena qualche decennio fa tutto era più facile e, in un certo senso, mediaticamente indirizzabile, grazie alle stelle polari del vecchio grunge, modello di vita e comportamento per intere generazioni. Scomparsi alcuni, dimenticati altri, trasformati altri ancora, si è demandato alla pura autoreferenzialità il compito, gravoso, di prendersi carico di chi, questa voce, non lha. O, meglio, non laveva.
Di Wunder e dei suoi trascorsi nella black metal band Cobalt (che, pare, stia tornando in attività dopo qualche anno di silenzio: in arrivo un terzo full length, Slow Forever, dopo un inaspettato tour della East Coast nel maggio scorso) abbiamo già avuto modo di parlare in occasione della recensione del sofferto, dolente debutto, Smiling Dogs, 2010. Devo confessarlo, mai avrei pensato che quel first act, imperfetto e bruciante come un dolore per troppo tempo covato e troppo disordinatamente eruttato, potesse beneficiare di un seguito che cementasse la credibilità del progetto Mans Gin in qualcosa di ben superiore ad un semplice sfogo a corrente alternata. Il rapsodo degli ultimi (a sua volta ultimo?) si cimenta, nellambizioso sophomore Rebellion Hymns, in ciò che si può definire a tutti gli effetti un diario di viaggio: di bordo, di scambio, di avventure. Landatura dilatata, le minuzie ingigantite, le vesti orchestrali, un impeccabile band di supporto che riveste superbamente i noccioli essenziali della scrittura bustrofedica del leader, interludi ed interstizi tra pezzi lunghi quando non lunghissimi, volontà melodica e velleità rumoristica: il salto in avanti è di quelli davvero coraggiosi.
Partiamo da quel curioso effetto Modest Mouse, che lo scalpiccio e lo sfregamento degli archetti ad immagine e somiglianza del beccheggio marinaresco, del rullio delle assi, dello sciaguattare delle onde regalano al canto ubriaco, smozzicato, incerto di Off The Coast Of Sicily: i primi Crippled Black Phoenix senza alcuna, brumosa, mediazione poetica. Si tratta di una nota di colore, vernacolare, straordinariamente imprevedibile: quasi che Ulisse fosse uno yankee ed avesse avuto bisogno di rimare ogni giornata ordinaria. È lo scostamento più evidente che il nuovo fulcro Mans Gin tenta di operare nei confronti dei vecchi brani, sebbene ancora timido e non convintamente portato a compimento. Le confessioni si susseguono, copiose ed inquietanti, per tutto il disco. Il melodramma di certe armonizzazioni in minore ne soffoca a tratti il dinamismo (Deer Head & The Rain, con femminei cori roots di solitudine raggelante e travaglio grunge in crescendo) e di Eddie Vedder naturalista, silvano, semiacustico ce nè ancora uno solo (Never Do The Neon Lights, armonica inclusa, è una decalcomania fedelissima alloriginale): quando riemerge però la sofferenza, e la nascosta anima soul di Wunder piange sul funereo piano della clamorosa Inspiration magistralmente espansa da acustiche, percussioni, contrabbasso, archi, fisarmonica, in una sinfonia folk lugubre ed arcana , lì Rebellion Hymns, prepotentemente, risorge. Curioso: tanto maggiore è la stizzosa impotenza che anima il protagonista del lavoro, parimenti forti ne riemergono le canzoni.
Inspiration entra a far parte, di diritto, del primo stadio, freudianamente infantile: la fiera battaglia contro i mulini a vento per migliorare la propria sorte, un invito ad abbracciare il vagheggiato, fragilissimo sogno americano. I muscoli di Old House (Bark At The Moonwalk), martellante ed ipnotica, già incrinano il meccanismo: quante cose si potrebbero chiosare sul dark side nordamericano, con il Fiedler d'annata sott'occhio e buona capacità di sintesi. Ci vogliono però tre parentesi strumentali (il primo di noise gotico e catacombale, con scricchiolii e scordature pianistiche: una ferale, minacciosissima chitarra black in sordina nel secondo; thriller italiano, felpato, ghignante nel terzo) perché i destini si rovescino nellaccorata disillusione di Sirens prima (I can trust anyone I see: lo zampino di Jarboe si avverte ben prima dellesplicitazione vocale, intorno a 4:30), nel bozzetto folk-blues di Hibernation Time poi, che prende fuoco in una vampa di chitarre post-core, sulle quali franano vividissimi frammenti di archi.
Let it be. Che così sia. Ascoltando la stralunata, beffarda, surreale ghost track che chiude il disco (evidente stravolgimento di uno dei punti fermi di Daniel Johnston in salsa Daniel Johnston), proprio non potrete non avere unidea precisa del lato per cui gli inni della ribellione, volonterosi ma volitivi, apertamente parteggiano.
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