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R Recensione

6,5/10

Vanessa Peters

With The Sentimentals

Tra le anomalie più eclatanti del mio percorso musicale, la faccia solare e sbarazzina di Vanessa Peters, bionda (quasi) trentacinquenne di Dallas, Texas, occupa una posizione preminente. Discografia alla mano, obiettivamente parlando, non c’è nulla nel songwriting, nell’approccio vocale, nelle soluzioni strumentali che possa motivare una reale passione nei suoi confronti: a meno che, chiaramente, non si sia veraci ammiratori del country-pop-folk a stelle e strisce, il che vanifica l’imparzialità e l’equidistanza del nostro compito. Come cercai di sottolineare, qualche anno fa, nella recensione di “The Burn The Truth The Lies”, l’apparente linearità della musica di Vanessa cela altre, più profonde, interpretazioni: liriche, soprattutto. Un aneddoto al riguardo. La conobbi nel 2007, quando mi capitò di ascoltare il suo “Little Films”, il secondo dei tre dischi scritti con la backing band di allora, i toscani Ice-Cream On Mondays, uscito una manciata di mesi addietro (prima o poi ne parleremo). Ne rimasi conquistato, proprio per il suo atteggiamento pragmatico, la disposizione a trattare di argomenti complessi in maniera semplice, logica: non è forse la nemesi di certi fumosi sofismi tutti tricolori? È una caratteristica, questa, che non è incorsa in significativi cambiamenti, che è resistita alla sostituzione della band, al ritorno da solista, al matrimonio con Rip Rowan, allo scorrere degli anni. Anzi: il messaggio avanzava anche quando le musiche, talvolta, sembravano farsi un po’ logore.

Non è il caso, giusto per mettere i puntini sulle i, di “With The Sentimentals”, un curioso ibrido che riporta Vanessa allo stato di forma degli esordi. La genesi del progetto: dopo un paio di tour condivisi in Danimarca, nell’aprile dello scorso anno Peters e Rowan (qui a synth e tastiere) volano a trovare gli amici nordici M. C. Hansen, Nikolaj Wolf e Jacob Chano in una fattoria funzionalmente impiegata come studio di registrazione. Il risultato, cinque canzoni live in meno di un giorno, è così soddisfacente da giustificare una seconda take, in ottobre, che partorisce altri cinque brani. Il disco, contenente i rifacimenti di “Big Time Underground” e “Fireworks” (proprio da “Little Films”) oltre a, pare, una cover di un inedito di Ryan Adams (!) mai rilasciato, è bell’e fatto. Tanta, rustica celerità non si riverbera minimamente sulla qualità del prodotto che, al contrario, vive di un’urgenza nuova, inedita anche a livello compositivo. Prendete il continuum tra “Pacific Street” e “Call You All The Time”, l’una indolente e zampettante, l’altra più genuinamente indie folk, pacata ma incisiva, anche sotto il profilo strumentale. Si ascoltino, sia pure ad occhi socchiusi, la tenue romance per acustiche di “The Choice”, i toni più lividi e drammatici di “Fickle Friends” (frammenti post rock qui e lì: molto bene), gli archi sintetici della conclusiva “Getting By”. Forse che i Mumford & Sons sarebbero ancora in grado di scrivere una canzone come “Mostly Fictions”? Anche la Vanessa più nuda, meno variopinta, come quella di “Afford To Pretend” (accompagnamento strumentale mai così essenziale), funziona e convince: segno parimenti di un’ottima intesa con gli amici collaboratori e di una penna ancora pungente.

Ci piacerebbe sentire, prima o poi, qualche altro frutto di questo sodalizio. Vanessa, nel frattempo, è tornata in studio per scrivere e registrare i pezzi del successore di “The Burn The Truth The Lies”: buon lavoro a lei, buon ascolto a noi.

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