Crying
Beyond The Fleeting Gates
Prima di cominciare, una considerazione preliminare: lindie rock americano (ma diciamo pure il rock e basta) è, nel 2016, sostanzialmente morto.
Seppellito dallesponenziale e sempre crescente passione per le nuove frontiere hip hop o new R&B e, ultimamente, tralasciato anche dallapproccio critico, tutto preso a rinascere a nuova vita poptimistica, lindie rock made in USA ormai non ha più rilevanza generazionale; resistono in unottica di seguito giusto alcuni nomi di punta del decennio scorso, come Arcade Fire, Strokes, Animal Collective, ecc., ma di nuove sensazioni nel genere manco lombra. A meno che il lettore non pensi che lennesimo disco di post-punk revival come un Is The Is Are dei DIIV non sia un imprescindibile opera darte creatrice di un prima e di un dopo nella storia della musica. Ma, più probabilmente, il nostro affezionatissimo lettore non saprà nemmeno di che disco si stia parlando, questo perché, e non cè Pitchfork a sostegno che possa tenere, il principale carnefice dellindie rock americano è lindie rock americano stesso, purtroppo per lui. La sua colpa fondamentale è laver smesso di voler essere significativo ed ambizioso, ma, tralasciando parallelismi che si potrebbero tracciare con la situazione di casa nostra o, ultimamente, pure dellInghilterra, capita, alle volte, di scovare nel sottobosco più profondo, delle perle di altissimo valore. Una di queste è proprio Beyond The Fleeting Gates, e fa rabbia che i tre giovani autori di questopera abbiano scelto di condannarsi allanonimato più profondo con un moniker, Crying, francamente irrintracciabile, se non tramite la fantomatica botta di c..o, buona soccorritrice di noi audaci musicomani terminali.
Di grazia, smettila di blaterare e dimmi cosa cè in questo disco!
Hai ragione, affezionatissimo lettore, ho la spiacevole tendenza a dilungarmi, ma non sono autocelebrativo, no, no, fraintendi del tutto, è solo che la mia passione per la musica è veramente viscerale e totalizzante e sono frustrato nel non poterla esprimere in contesti simolant . Allora, i Crying: immaginate i Rush che prendono a prestito le bordate di synth in eight-bit dei Crystal Castles per creare una musica al contempo sfacciatamente pop e tremendamente intricata. Ci riuscite? No? Riproviamo: prendete le chitarre roboanti dellAOR epico di Journey o Kansas e innestatele su una scrittura sbarazzina accostabile alla wave più orecchiabile a-là Blondie o Buggles e forse potrete iniziare ad avvicinarvi. La verità è che la musica contenuta in questo disco è quanto di più spiazzante ed inafferrabile possa capitare di ascoltare: per esempio, nella titanica Revive in meno di tre minuti si possono individuare almeno sei sezioni diverse e il contrasto schizofrenico tra la durezza della sei corde, il virtuosismo tecnico dellensemble e la dolcezza angelica della voce di Elaiza Santos (una specie di Maggie Rilley meno dotata) crea un amalgama potentissimo per evocatività, in una grandeur che non sconfina nella magniloquenza autocompiaciuta, ma lascia senza fiato, come alla vista di un suggestivo quadro romantico.
Se Revive è il capolavoro insuperato del disco, anche nel corso delle altre nove tracce non mancano le sorprese, spesso piuttosto nascoste: si prenda il riff assassino alternato tra 6/4 e 5/4 che sconquassa A Sudden Gust a partire dal minuto 1:26, il basso plettrato schiacciasassi nelle sezioni più concitate di There Was A Door, memore della lezione degli Yes di Drama o 90125, lintro di The Curve, che passa in neanche un minuto dal synth pop, al prog rock da arena, allinciso acustico power pop; cè anche spazio per gli arpeggi in chorus della vagamente dreamy Well and Spring o per la ballata sghemba e psichedelica, a-là Flaming Lips, in Children Of The Wind.
Insomma, se è pur vero che questo disco costituisce uneccezione nel panorama americano, è altrettanto palese come i riferimenti della proposta e anche la generale scarsa fedeltà nella registrazione, delizia, ma spesso anche croce di questi trenta minuti di musica, non possano che essere intrinsecamente collegabili con il glorioso passato del rock yankee.
Per quanto i ragazzi ce labbiano messa tutta a non farsi notare, questa volta Pitchfork (e non soltanto lei) ha alzato il pollice verso lalto, promuovendo la proposta, seppur con qualche riserva. Speriamo che possa essere il trampolino di lancio di una carriera proficua, per un terzetto a cui sembra mancare un po tutto, che si tratti di soldi o capacità manageriale, ma di sicuro non il talento, qui espresso in maniera fulgida e cristallina.
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