R Recensione

7/10

Journey

Revelation

Con encomiabile energia questi riconosciuti campioni dell’AOR americano, a ben trentacinque anni dalla fondazione del gruppo, sono tornati nel giugno scorso a pubblicare un nuovo album di inediti, dopo essersi preventivamente assicurati le prestazioni di un nuovo cantante, il settimo della serie!

Ma andiamo con ordine: la storia comincia nel 1973, quando il chitarrista Neal Schon (allora diciassettenne) ed il tastierista Gregg Rolie fuoriescono dai Santana per fondare un gruppo jazz rock (pensa te, ma furoreggiava la Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin, al tempo…), naturalmente con Rolie al microfono visto che era suo il ruolo anche nei Santana.

Dopo i primi due dischi, essendosi il gruppo velocemente orientato verso canzoni più semplici e lineari, si pensa che il timbro vocale di Schon, più grintoso, sia maggiormente adatto al genere e così il chitarrista si fa un corso intensivo di lezioni di canto ed è la voce solista su buona parte del terzo album “Next”.

Però non ci siamo proprio, urge un frontman di adeguato spessore ed allora viene assoldato un certo Robert Fleishman, che però dura soltanto per una stagione di concerti, presto soppiantato da un tizio di ben altra caratura, a nome Steve Perry. Quest’uomo ha uno stile di canto che magari può venire a noia a molti, così enfatico e retorico, ma dal punto di vista tecnico siamo ai livelli di un mezzo miracolo di natura: la “pasta” vocale è così spessa e sonora, l’estensione tenorile così sorprendentemente e naturalmente estesa, che inevitabilmente i Journey prendono all’istante ad essere, loro malgrado, il suo gruppo di accompagnamento. L’America si innamora perdutamente dei pallosi ma giganteschi gorgheggi di questo virtuoso e i Journey fanno soldi a palate, negli anni ottanta.

Perry e gli altri però litigano, si lasciano e si ricongiungono, fino al 1998 quando viene sancita la rottura (ad oggi) definitiva e il gruppo cerca e poi trova un nuovo cantante, se non bravo quanto Perry almeno che gli vada vicino, nella persona di Steve Augeri. Grande ugola questo Augeri, ma dopo sei o sette anni di esibizioni alle altezze tonali proibitive del repertorio Journey (nonchè un paio di dischi in studio), le sue corde vocali si ammalano irrimediabilmente, lasciando di nuovo a piedi la formazione.

Siamo allora al 2006, viene ingaggiato l’esperto Jeff Scott Soto, grande vocalist pure lui, ma qualcosa non funziona ed anche questo ottimo musicista fa in tempo a condividere solo una stagione di concerti per poi concordare una mutua separazione. Nulla trapela dalle dichiarazioni ufficiali, ma sono convinto che anche Mr. Soto si sia fatto un esame di coscienza e, tra i Journey e la sua gola, abbia giustamente optato per quest’ultima.

L’ultimo ed attuale ingaggio è figlio legittimo di Internet, ormai il definitivo mezzo mediatico dove cercare e dove farsi trovare. Neal Schon scova dunque su YouTube il perfetto clone di Steve Perry nei panni, molto globalizzati, di un… filippino quarantenne, attivo da una vita nei circuiti musicali dell’estremo oriente, fra la sua città Manila ed Hong Kong. Ci vuole una telefonata diretta tra San Francisco e Manila, perché la prima mail di Schon era stata cestinata dal cantante, pensando ad una burla!

La restaurazione completa dei fasti di Steve Perry, senza scomodare Perry stesso, si è dunque compiuta. Il talentuoso moro originario delle Azzorre, con la faccia rotondetta e la voce fragorosa viene ora perfettamente clonato da quest’altro moro anch’esso dai larghi zigomi (logico, è orientale) e pure lui figlio dell’Oceano (Pacifico, invece che Atlantico), che risponde al nome di Arnel Pineda.

Arnel raccoglie così l’occasione di una vita, il colpo di fortuna contrapposto alle difficoltà passate in una gioventù che lo vide, orfano di madre appena tredicenne, abbandonato poco dopo dal padre che non riusciva a mantenerlo, vagare per qualche anno per le strade di Manila, a dormire dove capitava e a racimolare qualche soldo con il recupero dei ferri vecchi ed altri simili mestieri di fortuna.

La musica ha prima salvato Arnel, donandogli un buon mestiere, umilmente e tenacemente perseguito dalle sue parti, e poi ha premiato il suo particolare talento regalandogli, ormai ben adulto, la sua buona chance internazionale. Spettacolare, effettivamente, la somiglianza della sua voce con quella di Perry, colgo solo una leggera minore pienezza nelle frequenze basse, controbilanciata però da un minimo di gigioneria in meno. Siamo al 90-95% dell’originale, per dirla in cifre. Tale l’entusiasmo dei suoi nuovi datori di lavoro che essi sono corsi subito a reincidere undici dei vecchi successi del gruppo, solo per il gusto di farglieli ricantare anche in studio e bearsi dell’assoluta somiglianza con gli originali.

Così l’album è uscito con due CD, il primo con undici brani nuovi di zecca ed il secondo con questi undici classici della formazione, talmente uguali agli originali che ci vuole qualcuno molto ben addentro alle faccende Journey per coglierne le differenze, davvero minime, o meglio pervicacemente minimizzate dai cinque del gruppo. Pineda imita Perry sillaba per sillaba, sospiri compresi e gli altri quattro si divertono (!) a suonare gli stessi spartiti con gli stessi suoni, assoli di chitarra compresi.

Roba da pazzi furiosi, ma se c’è un gruppo arroccato sul suo suono e sul suo stile, attento a non deviare minimamente da esso, refrattario a qualsiasi esperimento e aggiornamento, questi sono i Journey. Per loro non conta evolversi, anzi è un peccato mortale (come gli AC-DC, diciamo!). Contano invece le canzoni, le belle canzoni e tali sono, almeno e sicuramente secondo loro, i rocckaccioni ipermelodici e ipervitaminizzati (quando a condurre è il chitarrone di Neal Schon) o le ballatone iper-romantiche e retoriche (quando gli input prevalenti vengono dalle tastiere di Jonathan Cain).

E la raccolta di pezzi inediti? Perfetta per il genere, perfettamente inutile se vista nella prospettiva di chi vuole un minimo di novità ad ogni uscita discografica dei propri beniamini: arrembante e circense hard rock melodico americano. Mi dicono che stia tornando di moda, sull’onda dell’ennesimo revival anni ottanta, stavolta abbastanza effettivo oltre che annunciato e sbandierato (ed infatti questo disco sta vendendo in giro assai più dei due precedenti). Al proposito, uno dei miei rivenditori di dischi l’altro giorno mi raccontava meravigliato delle orde di diciottenni che vengono da un po’ di tempo in qua a comprargli i CD dei Def Leppard , dei Foreigner…e dei Journey, appunto.

Il rock è ormai anzianotto, i decenni accumulatisi dalla sua nascita hanno creato lo spazio per le celebrazioni delle tante sue pagine gloriose (meritate o meno, gradite o meno a seconda dei gusti personali). Almeno ai Journey è rimasto il gusto di comporre nuove canzoni, benché già sentite, non solo di scarrozzare in giro le vecchie hits. Anche io ho dunque dato il mio obolo per questo disco di vecchi marpioni, ma con la novità di un filippino che per una volta non pulisce casa (signò…) ma urla bravamente in un microfono le pacchiane e spettacolari note del più puro AOR americano.  

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Voto degli utenti: 6,5/10 in media su 2 voti.
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C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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SanteCaserio (ha votato 6 questo disco) alle 11:10 del 25 novembre 2008 ha scritto:

Non male

ma forse è giusto per chi già li ama!

Fedeli alla linea sono per lo meno più che affidabili.

Sono anzianotti amabili, ed è un piacere rendergli onore con l'obolo!

Adesso vado a caricare una mia esibizione su YouTube, magari finisco per fare il bassista dei Suicidal

Paranoidguitar alle 11:16 del 25 novembre 2008 ha scritto:

" se c’è un gruppo arroccato sul suo suono e sul suo stile, attento a non deviare minimamente da esso, refrattario a qualsiasi esperimento e aggiornamento, questi sono i Journey"

dopo questa frase non credo mi verrà mai voglia di ascoltarli a fondo da quel poco di loro che ho sentito il mio giudizio è simile a quello del recensore