R Recensione

7/10

Magnum

Into The Valley Of The Moon King

Birmingham, all’interno di determinati circuiti, resta indissolubilmente legata ai nomi di Judas Priest e Black Sabbath. Ne esiste però un lato magico e meno cupo, che al suo quindicesimo album conferma i confini di una maestosità fantasy composta da semplicità e largo respiro.

Un album melodico solitamente presta il fianco a diverse critiche, soprattutto se (apparentemente) facile all’ascolto. Un possibile moto di stizza iniziale deve però arrendersi quasi subito al fascino di un disco che suona acronico, fuori da ogni spazio e tempo esistente. Sfumano i confini, si confondono i colori e fra una strana composizione di riflessi si apre un mondo cui Rodney Matthews presta, da molti anni, le sue doti artistiche con le copertine dei Magnum.

AOR d’altri tempi, capace di assuefare e non deludere nessuna aspettativa, semmai incapace di attrarre chi dell’hard rock symphonic non ha mai voluto sentir parlare.

Se la decade d’esordio del gruppo è quella degli anni ’70, qui si strizza l’occhio alla metà degli anni ’80, da molti ritenuto il loro periodo migliore, dove trovano spazio richiami a Van Halen, Deep Purple (senza dimenticare i Rainbow), Meat Loaf e sensibilità progressive che hanno indotto alcuni (con leggerezza?) a citare i primi Queen.

Epica minimale che si preannuncia in pompa magna con un’Intro ascensionale, degna dei migliori fantasy movies hollywoodiani (includendo nella categoria anche film storici in stile Braveheart). Lo strumentale d’apertura prosegue in soluzione di continuità, ma quasi a smorzare il pathos accumulato, con Cry To Yourself, tra i più melodici e ruffiani del disco. Segue un brano propriamente AOR, più ispirato all’hard rock rispetto al pezzo precedente. La traccia è un pomp rock destinato a relegarsi uno spazio privilegiato in sede live e aperto da un pianoforte che a qualcuno potrebbe ricordare(e a qualcuno ha ricordato) i Kansas.

L’hard rock si ritaglia maggiore spazio in All My Bridges, prova di una sessione ritmica classica quanto magistrale, dove la chitarra si prepara all’intro blues di The Moon King, ballata melodica ancora in chiave epica, molto curata sul piano degli arrangiamenti e trascinante nel suo ritornello.

No One Knows His Name ritorna all’AOR più d’impatto - respirare aria a pieni polmoni in cima a una montagna irlandese rende la sensazione trasmessa dal ritornello. Il pezzo fa da preludio a una parentesi più malinconica:In My Mind’s Eye, segnata da una prova vocale più che apprezzabile e Time To Cross That River, che nonostante l’assolo più impegnativo degli altri non riesce a convincere fino in fondo, brillando di una luce più offuscata di quella delle altre canzoni.

If I Ever Love My Mind torna alla fonte del blues, regalando un buonissimo pezzo segnato da un’atmosfera più sofferta, seguita da A Face In The Crowd, buona per orecchie sensibili, altrimenti rischia di suonare anche troppo dolce e smielata.

Feels Like Treason recupera il ritmo ma si ridimensiona a piacevole mezzo per giungere alla conclusiva (e buona) Blood On Your Barbed Wire Thorns, dove sono ben evidenti passaggi che ricordano Ac-Dc e Bad Company.

In definitiva resta un lavoro organico e classico, ben suonato ed arrangiato, prodotto in modo ottimale. Ugualmente fondamentali sono i contributi di Bob Catley alla voce, Tony Clarkin alla chitarra e il fondamentale ruolo delle tastiere di Mark Stanway. In secondo piano la (comunque buona) prova di Al Barrow (basso) e Harry James (batteria). Qualche alto e qualche basso mantengono l’omogeneità complessiva che, come già detto, si inserisce all’interno del suo genere con grande maestosità, regalando un ottimo disco e impantanandosi in acque amiche, dove difficilmente si fermeranno quanti non amano questo genere di tratte.

V Voti

Voto degli utenti: 4/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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PierPaolo alle 15:14 del primo agosto 2009 ha scritto:

Bob Catley me lo sono visto recentemente...

a Bologna, in un concertino unplugged, accompagnato dal solo Vinnie Burns (Dare, Ten...) alla chitarra acustica. Gustosi.

Considero i Magnum un buon gruppo, non ottimo. Clarkin è chitarrisa intelligente e misurato, fa quello che c'è da fare. Hai ragione, la seconda metà degli anni ottanta è stato il periodo migliore per il gruppo. Daò un ascoltata a questo dischetto. Hai sempre il mio appoggio Dimitri.

SanteCaserio, autore, alle 11:24 del 11 agosto 2009 ha scritto:

Obrigado

aspetto un tuo parere allora !

Io spero di riuscire a gustarmeli a Novembre (Milano). Non li considero particolarmente brillanti ma hanno grandi capacità. In fondo mica a tutti si può richiedere genialità