R Recensione

6/10

Cactus

One Way... Or Another

Cactus = gruppazzo rockblues americano dell’inizio dei settanta, con le carte più che in regola per primeggiare dal punto di vista strumentale, purtroppo latitante a proposito di due precise virtù, decisamente indispensabili per lasciare segni importanti: il buon songwriting ed un grande cantante, carismatico e peculiare.

La formazione nacque alla fine del 1969, in qualche modo come ripiego: il batterista/paisà Carmine Appice ed il bassista Tim Bogert, considerati al tempo la migliore sezione ritmica “pesante” al mondo dagli addetti ai lavori, per tutto quello che avevano saputo far vedere e sentire negli appena disciolti Vanilla Fudge, si erano accordati col prestigioso chitarrista britannico Jeff Beck per unire le forze e provare a fare la voce grossa nell’ambito del nascente suono hard rock, allora alle prese coll’irresistibile ascesa planetaria dei Led Zeppelin. I poveri Tim e Carmine si erano visti sopravanzare inesorabilmente, lungo il corso dell’anno, da Page e compagni, loro gruppo di apertura all’epoca del primo sbarco del Dirigibile su suolo americano e, solo pochi mesi dopo, acclamati headliners con i Vanilla Fudge passati a dover far loro da spalla!

Beck comunque pensò bene a quel punto di scotozzarsi e rompersi qualche osso in un incidente stradale, uscendo dal giro per molti mesi e costringendo i due a cambiar progetto. Fu quindi assoldato al suo posto un gran “manico” americano, tal Jim McCarty, un chitarrista veramente con le palle. Il microfono fu invece messo in mano a talaltro Rusty Day, il tipico screamer rauco ed etilico, con tonsille d’acciaio, grinta e cattiveria da vendere, ma decisamente anonimo e limitato in quanto a stile, duttilità, distinguibilità, inevitabilmente lontano quindi dall’impatto di un Robert Plant, di un Rod Stewart, di un Paul Rodgers.

Ed eccoli qui, in questo che è il loro secondo album dei quattro di carriera, alle prese con del canonicissimo rock blues, dalla resa brillante, ma temo solo per chi ami a fondo il genere, oppure per chi si intenda di musica pure a livello di tecnica strumentale. Ovvero ancora per chi sappia cogliere ed apprezzare il “tiro” di un gruppo rock, quella precisa sensazione di potenza e poderosa spinta in avanti che è più facile avvertire col proprio stomaco che spiegare a parole. Ecco, questi Cactus avevano un tiro mostruoso, su palco devono essere stati un bello spettacolo, molto trascinante e le registrazioni dal vivo pubblicate lo confermano.

Su disco è diverso, ci vogliono le canzoni, ci vuole personalità, peculiarità. Il disco scorre bene, tutti gli ingredienti dell’hard blues sono al loro posto: Carmine picchia forte e preciso (può vantarsi di aver dato parecchie dritte a John Bonham, che lo guardava suonare cogli occhi e le orecchie spalancati, al tempo), Bogert è un bassista brillantissimo ed all’epoca innovativo, con un poderoso uso del distorsore e dei bicordi e con delle uscite guizzanti ed entusiasmanti sulle note più acute del suo strumento.

McCarty è a sua volta brillante, sicuro e vario con la Gibson. Non manca poi di svariare all’acustica, nonché di lasciare spesso e volentieri il proscenio all’altro strumento solista, l’armonica blues del cantante. C’è la cover del pezzo storico (una “Long Tall Sally” rallentata e stravolta, proprio in apertura), lo strumentale d’atmosfera (“Song For Aries”, scolastica ma lirica), il bluesone strascicatissimo e melmoso (“Hometown Bust”), la cavalcata furiosa e piena di fuoco (la canzone che intitola l’album, dove McCarty fa proprio i bambini coi baffi colla sua indemoniata sei corde). 

L’album scorre bene, senza infamia e senza lode; i ragazzi suonano benissimo il loro british blues, rivisto e corretto dagli ultimi dettami hard del tempo e solo appena contaminato da qualche tocco americano di rhytm&blues (nei cori in risposta al canto solista, più che altro), tanto per ricordare che siamo a New York e non a Lontra. Sparato in cuffia a volume indecente fa la sua porca figura, ma è appunto un disco per appassionati del genere, una buona occasione per apprezzare all’opera strumentisti fra i più validi del genere.

Per inciso, Bogert ed Appice poi ce la fecero a suonare con Beck, un paio di anni dopo, ma niente da fare: mancava un buon cantante (e dai…), mancavano le buone canzoni (ma va…, ce n’era comunque una…”Superstition”, donata loro da Stevie Wonder, che però pensò quasi subito di riprendersela e cantarsela pure lui, era troppo buona…)

Per quelli a cui piace il genere e, romanticamente, i perdenti di talento, questo è un disco che può emozionare  un casino. Odora di anni settanta, di festival all’aperto, di suono analogico, di pedale wha wha pestato a dovere, di Radio Montecarlo ascoltata di notte, di Marshall a manetta. Neanche una tastiera all’orizzonte, si picchiano corde e si massacrano pelli e corde vocali. Onore ai Cactus.

V Voti

Voto degli utenti: 4/10 in media su 1 voto.
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