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R Recensione

6,5/10

CarmenSita

Outta Kali Phobia

Cinquanta sfumature per rendere interessante un disco voce e chitarra. Avere cuore limpido ed idee solide, la base imprescindibile: far finta di utilizzare solamente voce e chitarra, comportandosi di conseguenza fino alla fine, lo sviluppo primario; modellare sulla scarsità dei mezzi la concisione espressiva, derivazione consigliata. Segnaliamo “Outta Kali Phobia”, l’anomalo debutto autoprodotto del duo-non duo CarmenSita (la vocalist Carmen Cangiano a ukulele e harmonium, il bravo Claudio Fabbrini all’acustica, il senegalese Dudu Kouate a rinforzare la sezione percussiva), perché capace di centrare tutti i traguardi pur sottovoce, con umiltà, in economia. Non avendo la sfera di cristallo tra le mani, non siamo in grado di prevedere quanto i frenetici, competitivi meccanismi di promozione oscureranno l’uscita di questo lavoro: con ogni probabilità, in misura notevole. In questo caso è bene trasgredire le regole tacitamente imposte dall’esterno.

I due brani più riusciti sono, in proporzione, quelli che si ricollegano visceralmente all’immaginario minimal-tribale di certa psichedelia sessantiana. “Trouble”, nello specifico, è un unico battito rituale che si abbarbica attorno a cellule liriche, estratti di Ringkomposition sacrale per una nuova Woodstock, con cinquant’anni di ritardo sulla tabella di marcia. Raffinato nelle tessiture strumentali, sfuggente nell’interpretazione è, invece, il blues guizzante di “Don’t Forget To Dance”. Solo nella titletrack si rischia di tracimare nella parodia mistica di certi Jefferson Airplane. Ma la musica dei CarmenSita, lo si coglie anche senza approfondire i testi, è impregnata di un approccio autoironico che li porta, sovente, sull’orlo dell’esplicito corteggiamento al pop jazz d’autore (le sonnolente fusa della gradevole “She’s A Godness”, la briosa Norah Jones di “Move On”) e li fa suonare convincenti anche nel momento di maggiore nudità, una “Deep Water” che è scaglia di soul incastrata quasi casualmente (la chiave, al solito, è nel “quasi”) nella tracklist.

Davvero non male. Consiglio disinteressato: sarebbe bene, per il futuro, coltivare l’idioma madre, già ottimamente impiegato in “La Noia Ha Fame”.

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