R Recensione

8/10

Dead Meadow

Old Growth

A tutti gli effetti, Feathers (2004) fu un Rubicone: scorporando dal loro sound la componente più hardcore e desertica dello stoner, si candidarono, per eccellenza, al rango di psych - (post) blues band di inizio millennio. Pur mantenendo, di fatto, una feritoia affacciata sul mondo esterno (la forma canzone heavy/rock, le classiche antifonie elettrizzate dai riff, le elefantiache distorsioni “settantesche”), ne riconducevano le forme ad una realtà interiore (una rarefazione musicale che tracima nei rivoli inconsci di un sostrato armonico molle, sognante e malinconico, opportunamente espanso da recettori bramosi di linfa psicotropa).

In altre parole l’hard rock, il blues, l’acid-stoner (o quel che ne resta) sono ridotti a puri significanti, trascesi nel perturbante cosmico di una grana sonica tenue e delicata, un pulviscolo di suggestioni prettamente oniriche. Più che il rigoglio dell’esuberanza giovanile (tipica della tradizione hard/heavy) nella musica dei Dead Meadow si celebra la lenta, appagante, perversa decomposizione di una natura morta (lo scibile psych-rock) che, come nei dipinti del Caravaggio, nell’istante in cui è colta, mostra già i primi sintomi di consunzione e di senescenza.Un po’ i Grateful Dead dello stoner, potremmo dire saltabeccando nel mondo delle facili etichette e delle definizioni ad effetto. Più i geniali scalpellini di Aoxomoxoa e Workingman’s dead (ca va sans dire) che non i dissoluti architetti di cattedrali acid-test in quell’Atlantide del suono che è Anthem of the sun.

Che la forma-canzone non sia mai stata messa in discussione nei loro progetti lo conferma anche Old growth. Titolo sintomatico per un gruppo che ha aspettato ben quattro anni per dare un seguito al sublime predecessore e che ora, tornato un power-trio (su Feathers s’era aggiunto Cory Shane alla seconda chitarra), aspira (legittimamente) a costruirsi una sua aura di classicità. In altre parole la lunga cogitazione non ha prodotto gli smottamenti lisergici dell’opera precedente, ma ha contribuito ha rinsaldare gli argini di questa impressionistica deriva di continenti psichedelici. Quello che balza subito all’orecchio di Old Growth è il maggiore risalto concesso alla sessione ritmica, specialmente al basso (tumultuosa e incessante la spinta in levare di Steve Kille, allievo non degenere di Joe Lally), contrafforti che il sound design delucida e non opacizza come avveniva in passato.

Ma sono dettagli, importanti certo, che non distolgono l’attenzione dal complesso padiglione percettivo di un songwriting avvolgente, fluviale, maturo (ma sempre sul punto di appassire: è da qui che scaturisce quella melanconica voluptas che li rende unici, nel bene e nel male). Una classicità, dicevamo, che traspira nell’hard-boogie un po’ alla Allman Brothers di Between me and the ground, mirabilmente sospesa fra twang e wah su ciondolanti tempi dispari, nel raga-blues un po’ alla Cream di Hard people / Hard times, nel numero alla Blue Cheer (ma su staccati jazz di una grazia infinita, impagabile il lavoro di McCarty alla batteria), nel sapiente dosaggio del delay che si dipana lentamente in un “laid-back” psichedelico e nel prog rusticano di ‘till Kingdom Come  (ouverture synth, voce velata, flanger inediti). La rotta astrale di Feathers sopravvive comunque in costrutti più coesi da cui sbocciano motivi decisamente calibrati dietro l’apparente smarrimento (Ain’t nothing to go wrong, What needs me, con un assolo southern sperso in mezzo ad un tripudio di distorsioni, The great deceiver).     

 Una lenta ma costante lievitazione artistica che si può cogliere, inoltre, seguendo lo sviluppo del loro profilo più acustico, bucolico, cantautorale, piuttosto rilevante rispetto ai trascorsi, anche in termini di canzoni: Down here con quegli accordi che sembrano unghie appuntite conficcate nel cuore di una dormiente litania d’un mangiatore d’oppio, Keep on walkin’ soffuso country-rock vibrato sul riverbero ronzante della distorsione ed Either way, serenata campagnola sussurrata nel buio e rischiarata dal sorriso di una falce di luna (per slide e synth stiracchiato che si mimetizza sullo sfondo).

Infine, sul tavolo di questa natura morta, c’è posto per due frutti che provengono dagli antipodi delle stagioni musicali: Seven seers, sixties raga da “bom shankar” con climax ascendente (per chitarra acustica, sitar e tom percossi a mano) e I’m gone, power ballad psych-grunge dalla trama semplice e dal ritornello contagioso, più un assolo che gronda spontaneo come un ruscello da una rupe di campagna. Talmente perfetta che, se non si trattasse dei Dead Meadow, ci spingeremmo a pronosticarle un futuro da hit a cinque zeri. Noi che, in fondo, in fondo, li vorremmo sempre così, avvolti nella penombra, nella splendida nicchia che si sono ritagliati.

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Voto degli utenti: 6,9/10 in media su 9 voti.

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Ivor the engine driver (ha votato 7 questo disco) alle 10:21 del 22 febbraio 2008 ha scritto:

Compliemtni Simone bella rec, ti sbrodoli un po' troppo secondo me, forse perchè maghari sono altri i dischi dei Meadow su cui sbrodolarsi. Devo ancora dedicargli ascolti attenti, ce l'ho da natale ma per ora se non mi ha preso mi preoccupo, visto che li seguo da 7 anni. Per ora posso dire che mantengono la loro caratteristica aura di psichedelia agreste (non intendo folk), pastosa (sempre meno) e indolente. Però in certi tratti ammosciano di brutto, soprattutto quando imitano i Brian Jonestown Massacre, che già di per sè sono strasopravvalutati. Voto per ora

TheManMachine alle 12:27 del 22 febbraio 2008 ha scritto:

Ciao Simone! Recensione di elevato livello, comme d'habitude! Il disco l'ho ascoltato en passant. Ho notato, comunque, un'accoglienza generalmente piuttosto tiepida per questo nuovo lavoro dei Dead Meadow, valutazioni contrastanti, molti sembrano non aver perdonato alla band l'aver tradito i precetti dello stoner rock. La mia prima impressione è che si tratti di un'opera più che dignitosa, con momenti indubbiamente felici: oltre all'opener "Aint' Got Nothing (To Go Wrong)", anche "What Needs Must Be", "I'm Gone" e "'Till Kingdom Come". Troppo poco per fare di questo disco un buon album? Lo riascolterò...

simone coacci, autore, alle 16:05 del 22 febbraio 2008 ha scritto:

Caro Ivor, sappi che, per tua norma, io non mi sbrodolo mai, in quanto ho cura di indossare quel particolare indumento che dalle nostre parti è detto prosaicamente "bavarolo" (o "bavagliolo" o "bavaglino")...ih ih ih...anche l'età mentale è quella. No, scherzo, comunque, pound per pound (come dicono nella boxe), meglio loro che i Black Mountain, dai, ecchecaz...pita! Reazioni contrastanti, nevvero, ma non del tutto negative, poco fa, ad esempio, sbirciando fra le pagine di Blow Up nell'edicola qui sotto, ho notato un 8, che data la diversa scala di valutazione equivarrebbe quantomeno ad un nostro 9. Non che per me cambi qualcosa, la mia idea è sempre quella: "Feathers" resta ineffabile, questo è più classico, compatto, impeccabile, no, che non farà epoca, ma è tremendamente buono. Poi, ai posteri l'ardua sentenza. Comunque l'essersi allontati dallo stoner (genere, mi pare, agonizzante e in stretta osservanza del quale, forse non sarebbero mai riusciti primeggiare), a mio avviso, gli ha fatto più bene che male: il tasso di originalità compositiva e di presa sull'ascoltatore mi sembra notevolmente accresciuto.

Grazie ad entrambi per i generosi commenti

Saluti.

Ivor the engine driver (ha votato 7 questo disco) alle 16:28 del 22 febbraio 2008 ha scritto:

el bavarolo me sa che te serve Allora annosa questione quella che poni: non reputo il disco dei BM un capolavoro, ma lo sento per ora + volentieri di questo. Però non mi sbilancio con i Meadow sono anni che vado a momenti. Però l'impatto è very moscio. E non sono mai riuscito a incastonarli come stoner tout court i Meadow, molto + lenti (le prime cose sono quasi acid doom) e stordenti del gruppo filo-kyuss. Lo stoner per me è morto dopo l'uscita del primo disco Unida, più o meno nel 98. Poi l'area che chiamiamo ancora stoner è risorta un due tre anni dopo con delle grosse variazioni sul tem psichedelia. Di gruppi stoner o molto simili rimangono penso solo i COlour Haze validi, il resto non pervenuto. Ah e Blow Up è un giornale della stessa credibilità musicale di Topolino per quel che mi riguarda (come del resto 90% delle pubblicazioni musicali) ma Blow Up con la sua aria finto colta e con l'età media dei recensori di 25 anni, ha sempre attratto le mie antipatie. Un po' come quelli che sentivano post rock nei '90.

Ivor the engine driver (ha votato 7 questo disco) alle 16:32 del 22 febbraio 2008 ha scritto:

ah ma non ti ho mai chiesto se d'estate passi al lazzaretto....io ci metto i dischi tutte le sett, psichedelia ovviamente. CHissà andrà a finire che ci conosciamo pure, anche perchè a Falconara ne conosco di gente....Diego Marchegiani tipo?

simone coacci, autore, alle 18:54 del 22 febbraio 2008 ha scritto:

Si al Lazzabaretto ci sono venuto diverse volte nelle perdute estati. C'ero anche al concerto dei Baustelle, ma era 2 o 3 anni fa, boh. Anche l'anno scorso comunque. La prossima vengo sicuro, così visto che metti i dischi, mi fai pure bere gratis...ihhihih. No Diego Marchegiani mi sa che non lo conosco. Di Marchegiani conosco solo Luca, ma quello è notoriamente nato a Jesi. E poi ("en Dio!", aggiungerei) Blow Up è un buon giornaletto, "non scartamo grasso", un po' fighetto, quello si, un paio di tizi che pare che so' sempre sotto acido quando scrivono, ma per il resto passabile. Lo stampassero su carta riciclata lo comprerei più spesso.

Ciao mitico Ivor!

P.S: Sullo stoner sono perfettamente d'accordo con te, invece!

Cas (ha votato 8 questo disco) alle 19:46 del 20 marzo 2008 ha scritto:

che discone! mi è piaciuto davvero un casino...blues psichedelico pregnante e sorprendentemente coinvolgente. bravo Simone!

REBBY (ha votato 7 questo disco) alle 12:17 del 2 aprile 2008 ha scritto:

I'm Gone è effettivamente perfetta come hit, tra le più gettonate da me quest'anno. Ci sono dei

momenti bellissimi in quasi tutti i brani, spesso

però ci si dilunga troppo, a mio parere, negli

assoli, finendo per appesantire. Sara che dopo

j. hendrix e Peter Green (The End of a Game, titolo profetico a posteriori)....!? anche se

effettivamente pur prolissi sono migliori degli

assoli di Black Mountain o S. Malkmus, ad esempio.

Comunque troppi, ma sopratutto troppo dilatati.

Per i miei gusti, ovviamente.

Nucifeno alle 17:58 del 30 aprile 2008 ha scritto:

Mi sa che questi fanno per me

I pezzi sul MySpace spaccano. E' la prima volta che li sento

Alessandro Pascale (ha votato 8 questo disco) alle 17:33 del 14 dicembre 2008 ha scritto:

non l'avevo ancora votato e me ne vergogno. Disco di ottimo livello che in questo periodo di pioggia autunnale sto ascoltando instancabilmente. Recensione centrata al millimetro Cmq che votacci che sono stati dati a sto povero disco, rialziamo un pò

ThirdEye (ha votato 5 questo disco) alle 15:05 del 21 gennaio 2009 ha scritto:

Non so...Gia Feathers non mi aveva molto entusiasmato....Li preferivo di gran lunga all epoca di Howls from the hill e del capolavoro Shivering kings and others.....