Dead Meadow
Old Growth
A tutti gli effetti, Feathers (2004) fu un Rubicone: scorporando dal loro sound la componente più hardcore e desertica dello stoner, si candidarono, per eccellenza, al rango di psych - (post) blues band di inizio millennio. Pur mantenendo, di fatto, una feritoia affacciata sul mondo esterno (la forma canzone heavy/rock, le classiche antifonie elettrizzate dai riff, le elefantiache distorsioni settantesche), ne riconducevano le forme ad una realtà interiore (una rarefazione musicale che tracima nei rivoli inconsci di un sostrato armonico molle, sognante e malinconico, opportunamente espanso da recettori bramosi di linfa psicotropa).
In altre parole lhard rock, il blues, lacid-stoner (o quel che ne resta) sono ridotti a puri significanti, trascesi nel perturbante cosmico di una grana sonica tenue e delicata, un pulviscolo di suggestioni prettamente oniriche. Più che il rigoglio dellesuberanza giovanile (tipica della tradizione hard/heavy) nella musica dei Dead Meadow si celebra la lenta, appagante, perversa decomposizione di una natura morta (lo scibile psych-rock) che, come nei dipinti del Caravaggio, nellistante in cui è colta, mostra già i primi sintomi di consunzione e di senescenza.Un po i Grateful Dead dello stoner, potremmo dire saltabeccando nel mondo delle facili etichette e delle definizioni ad effetto. Più i geniali scalpellini di Aoxomoxoa e Workingmans dead (ca va sans dire) che non i dissoluti architetti di cattedrali acid-test in quellAtlantide del suono che è Anthem of the sun.
Che la forma-canzone non sia mai stata messa in discussione nei loro progetti lo conferma anche Old growth. Titolo sintomatico per un gruppo che ha aspettato ben quattro anni per dare un seguito al sublime predecessore e che ora, tornato un power-trio (su Feathers sera aggiunto Cory Shane alla seconda chitarra), aspira (legittimamente) a costruirsi una sua aura di classicità. In altre parole la lunga cogitazione non ha prodotto gli smottamenti lisergici dellopera precedente, ma ha contribuito ha rinsaldare gli argini di questa impressionistica deriva di continenti psichedelici. Quello che balza subito allorecchio di Old Growth è il maggiore risalto concesso alla sessione ritmica, specialmente al basso (tumultuosa e incessante la spinta in levare di Steve Kille, allievo non degenere di Joe Lally), contrafforti che il sound design delucida e non opacizza come avveniva in passato.
Ma sono dettagli, importanti certo, che non distolgono lattenzione dal complesso padiglione percettivo di un songwriting avvolgente, fluviale, maturo (ma sempre sul punto di appassire: è da qui che scaturisce quella melanconica voluptas che li rende unici, nel bene e nel male). Una classicità, dicevamo, che traspira nellhard-boogie un po alla Allman Brothers di Between me and the ground, mirabilmente sospesa fra twang e wah su ciondolanti tempi dispari, nel raga-blues un po alla Cream di Hard people / Hard times, nel numero alla Blue Cheer (ma su staccati jazz di una grazia infinita, impagabile il lavoro di McCarty alla batteria), nel sapiente dosaggio del delay che si dipana lentamente in un laid-back psichedelico e nel prog rusticano di till Kingdom Come (ouverture synth, voce velata, flanger inediti). La rotta astrale di Feathers sopravvive comunque in costrutti più coesi da cui sbocciano motivi decisamente calibrati dietro lapparente smarrimento (Aint nothing to go wrong, What needs me, con un assolo southern sperso in mezzo ad un tripudio di distorsioni, The great deceiver).
Una lenta ma costante lievitazione artistica che si può cogliere, inoltre, seguendo lo sviluppo del loro profilo più acustico, bucolico, cantautorale, piuttosto rilevante rispetto ai trascorsi, anche in termini di canzoni: Down here con quegli accordi che sembrano unghie appuntite conficcate nel cuore di una dormiente litania dun mangiatore doppio, Keep on walkin soffuso country-rock vibrato sul riverbero ronzante della distorsione ed Either way, serenata campagnola sussurrata nel buio e rischiarata dal sorriso di una falce di luna (per slide e synth stiracchiato che si mimetizza sullo sfondo).
Infine, sul tavolo di questa natura morta, cè posto per due frutti che provengono dagli antipodi delle stagioni musicali: Seven seers, sixties raga da bom shankar con climax ascendente (per chitarra acustica, sitar e tom percossi a mano) e Im gone, power ballad psych-grunge dalla trama semplice e dal ritornello contagioso, più un assolo che gronda spontaneo come un ruscello da una rupe di campagna. Talmente perfetta che, se non si trattasse dei Dead Meadow, ci spingeremmo a pronosticarle un futuro da hit a cinque zeri. Noi che, in fondo, in fondo, li vorremmo sempre così, avvolti nella penombra, nella splendida nicchia che si sono ritagliati.
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