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R Recensione

7,5/10

Dirtmusic

Bu Bir Rüya

La rivoluzione non sarà trasmessa in televisione e la musica tornerà a fluire sporca, imbrattata di sangue polvere e sudore, contaminata di popoli e genti che sono massa e individuo, a colori o in bianco e nero, lividi di rabbia o sgargianti di sorrisi, mani e piedi incrociati in una lotta o in un abbraccio… purché resti alla fine solamente una pulsazione primigenia, come fragoroso respiro unitario: la terra, l’umanità.

Questo è un sogno, “Bu Bir Rüya”, è il nuovo lavoro dei Dirtmusic, politico, politicizzato, apolide nell’accezione più libera e sovversiva del termine, magma fluente ignaro dei confini eppure terribilmente consapevole della necessità di incendiarli, necessario dunque. Cinematografico, perché “questo è un sogno”, possente, pulsante e sotterraneo come i germi delle idee migliori. La vera barbarie è erigere muri, l’appartenenza è un canto, l’arma un’invettiva.

L’affascinante progetto globale e non globalizzato di Chris Eckman (The Walkabouts) e Hugo Race (Nick Cave and The Bad Seeds), dopo aver sposato la causa civile e musicale del Mali, si sposta in Turchia, abbracciando Murat Ertel dei Baba Zula e il suo caustico saz in un sodalizio poco mistico e molto terreno, su un tappeto di groove maleducati, psichedelia visionaria, vette di strenuo lirismo e laceranti climax elettrici.

Da questa base crostosa prendono il volo come cupe vampe sette movimenti di rabbia covata, di speranza non demandata a un inaffidabile dio, ma perseguita pervicacemente, in una stretta vigorosa di vene gonfie per lo sforzo dell’oltrepassare la frontiera ignorante, la paura del diverso. “Outrage” è questa collera incanalata ad ogni costo, il distruggere per costruire; “They never understand how we are all connected” declama potente il recitativo di “The Border Crossing”, simmetrica danza sferzata di elettriche, preceduta dall’incedere marziale di “Bi De Sen Sӧyle” e seguita da “Go The Distance”, palpito primordiale della terra che ogni tanto muore lasciando il posto all'umanità, per poi riprendersi la scena prepotente fino alla lancinante filastrocca finale.

Del nomadismo della mente e del cuore canta Gaye Su Akyol, impreziosendo “Love Is A Foreign Country”, spartiacque lirico da pelle d’oca, mentre la coda è affidata all’inquietante presa di coscienza della title-track, nitrito funesto in bilico tra sogno, incubo e realtà.

Mother, father, sister, brother: i Dirtmusic si rivolgono più volte a questi interlocutori nel dipanarsi verboso delle liriche. Madri e padri in fuga dalle guerre civili, dai giochi di potere sanguinosi e dagli eserciti in rivolta, sorelle e fratelli che, oltre il confine, non si sentiranno mai più a casa loro e che, dentro il confine, moriranno ugualmente in ginocchio per mano di altri fratelli, sorelle, padri, madri.

Bu Bir Rüya” è un album disperato, perché si rivolge a chi non lo ascolterà. Le sue preghiere non sono per voi: per voi che guardate oltre il confine, per voi che quel confine nemmeno riuscite a vederlo. Per voi, padri madri fratelli sorelle, che non avete alcun bisogno di questo disco, poiché ne possedete già la libertà e la rabbia. Per voi, questo è un sogno, o poco più.

Bu.

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