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R Recensione

7/10

Flying Horseman

Wild Eyes

Belgio e musica, molto sommariamente, è un’associazione che - a livello internazionale e in ambito strettamente “rock” - conduce i più ad un solo nome: Deus. Conseguenza di una “critica” dalla visione (forzatamente?) circoscritta, brava a recensire anche le schifezze - se inglesi o americane - e spesso incapace di notare realtà “periferiche” magari molto più interessanti. Come per l’Italia. Chiedi ad un qualsiasi musicista straniero, magari giovane, cosa conosce, o ascolta, o ha ascoltato di italiano e, immancabilmente, ti risponderà: Giorgio Moroder (con tutto il rispetto che ho per Moroder). Che, tra l’altro, all’anagrafe fa Hansjörg, parla tedesco, e fosse nato vent’anni prima tedesco lo sarebbe stato per davvero. Quelli del paese di Moroder, per dirla tutta, fino alla fine degli anni sessanta gli italiani li facevano saltare per aria. Ma questa è un’altra storia.

Fatto sta che, bellamente ignorato dalla gran parte degli addetti ai lavori, il debutto dei sei Flying Horseman, dai dintorni di Anversa, rischia di passare inosservato come una soubrette nelle liste del PdL. E sarebbe un gran peccato. Il gruppo costruito intorno al carismatico Bert Dockx ha invero la rara capacità di ammaliare anche l’ascoltatore più navigato e di condurlo verso l’utopica certezza di trovarsi di fronte a qualcosa di davvero originale. Al di là di una matrice di blues purissimo, apertamente alla base del mood decadente e oscuro che permea tutte e dieci le composizioni, e di un’onestà antica (cui ricondurre la scelta di registrarsi live, senza sovraincisioni), Wild Eyes poco ha a che fare con la forma della tradizione genericamente intesa. Eppure, gli deve talmente tanto da racchiudere in sé tanto un Blind Lemon Jefferson degli anni ’20 quanto certo fumoso post-rock dei ’90. E la spigolosa eccentricità di Captain Beefheart, e i viaggi lisergici dei Doors, e certo cantautorato in auge oggigiorno, gotico (Wovenhand) o depresso (Bill Callahan) che sia. Il tutto si traduce in uno sdoppiamento di personalità decisamente evidente: se in due/tre episodi l’accoppiata riff/ritmo regge tutto, per gran parte del lavoro la musica è invece soffocata, costretta entro spazi angusti che non le si addicono. Conseguenza: la voglia di esplodere della materia è drammaticamente percepibile quanto regolarmente frustrata. E proprio in questa tensione disperata (e, ancor più, disperante), mai risolta apertamente, si riconosce uno degli elementi di maggior fascino del disco.

Bitter Storm è introduzione e manifesto: la musica si insinua lieve ma insistente, come filtrando attraverso un pertugio, e cresce paziente, col passo calmo ma inesorabile di un’erosione. Padrone fin da subito sono la chitarra e la voce (per inciso, eccezionali entrambe) di Bert Dockx. Il picking si limita ai bassi (e per questo resta sullo sfondo a confondersi con elettrici droni sepolcrali e con le voci, bordoni anch’esse, delle due coriste) ed è la metà più funzionale e meno evidente del suo bagaglio espressivo. La doppia apertura armonica nel pezzo, splendida, e la chiusura inusitata, mostrano un gusto di quelli inattaccabili. Il brano fa il paio con la successiva Beats: simile incedere asfissiante, stessa bravura nell’aprire con frasi di cristallina bellezza, uguale tendenza al crescendo trattenuto. E un finale, con la chitarra ancora sugli scudi, che si vorrebbe non finisse mai.

La tortuosa e a tratti “violenta” Landmark/Lament, così come il dispari di Meditation Blues, mostra senza riserve il secondo volto del gruppo. Il modo di intendere il blues, destrutturandolo con sprezzo per le cesellature ritmiche, è lo stesso - con maggior moderazione - che ha reso grandi Beefheart o gruppi come gli U.S. Maple. Persino il crooning di Dockx, fino a qui funesto, vicino a Cave o Jim Morrison, sembra ora fare il verso agli eccessi espressivi di Al Johnson. In quanto a enfasi, in effetti, mister Dockx ha poco da invidiare a chiunque. Si ascolti, in proposito, anche la splendida ballata Climb Up The Wall, tra i Low e certa dark-wave, tutta su un giro di due accordi, con tanto di chitarre Cure a lanciare un finale dal traguardo rumorista. Notevoli anche Feather, strutturalmente semplice ma dalla melodia complessa, che esige ascolti a nastro fino all’assimilazione completa, e la conclusiva Wild Eyes, otto minuti che racchiudono tutto il repertorio della band e che culminano in un tempo creato per sovrapposizioni, assurdo quanto magnetico, con le solite meraviglie di chitarra a illuminare cotanta cornice.

Wild Eyes non è, per certi versi, un disco “perfetto”. Non è eclatante nei suoni (la registrazione live, se da un lato è impareggiabile nel catturare il “momento” espressivo, dall’altro è crudele nel sacrificare lo “spazio” fra gli strumenti e la loro singola brillantezza), e lascia supporre che, soprattutto a livello di melodie vocali e di tenuta sulla distanza delle stesse, Dockx possa fare un’ulteriore passo in avanti. È però uno di quei dischi che non solo si fa perdonare i difetti ma, paradossalmente, riesce a farli passare per pregi. Se siete di quelli che godono a ricercare (e trovare) classe ed eleganza tra la polvere, se amate l’indefinito, l’accorato consiglio è di non farvelo sfuggire.

 

V Voti

Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 4 voti.
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C Commenti

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SamJack (ha votato 8 questo disco) alle 7:27 del 19 maggio 2011 ha scritto:

Disco meraviglioso...personalmente alzo il voto, mi pare un pò basso quello della recensione...

target alle 10:18 del 19 maggio 2011 ha scritto:

Ahah, pensa che era stato (avevo) aperto un topic sulla musica belga (questo: http://www.storiadellamusica.it/forum/viewtopic.php?t=2021), ma più o meno la reazione era stata: "maccheccazzofate, rivalutate persino l'infima scena belga, mentre in Italia abbia un mucchio di roba buona e siamo solo capaci di denigrarci!". Da quel giorno parlo solo di musica inglese e americana... Ogni tanto uno scandinavo. Bravo Gaz, comunque. Loro ti direbbero che il Belgio non esiste. Ma i belgi son forti.

paolo gazzola, autore, alle 10:28 del 19 maggio 2011 ha scritto:

Eh, hai ragione Sam, qui è stato molto difficile scegliere. Partita come un 8, corretta in corsa. Ciò non toglie che questo disco non mancherà di sicuro nella personale top ten di fine anno. Meraviglioso davvero...

bill_carson alle 10:54 del 19 maggio 2011 ha scritto:

i brani ascoltabili

sono interessanti

bill_carson alle 10:54 del 19 maggio 2011 ha scritto:

i brani ascoltabili

sono interessanti

bill_carson alle 10:54 del 19 maggio 2011 ha scritto:

i brani ascoltabili

sono interessanti

bill_carson alle 10:54 del 19 maggio 2011 ha scritto:

i brani ascoltabili

sono interessanti

bill_carson alle 10:54 del 19 maggio 2011 ha scritto:

i brani ascoltabili

sono interessanti

paolo gazzola, autore, alle 13:05 del 19 maggio 2011 ha scritto:

@ Targ

Eh eh, in effetti è proprio così, vale non solo per il Belgio. Personalmente a suo tempo - approfondendo gli Zero - mi immersi nel noise francese, scoprendo autentiche meraviglie di cui non si legge nulla, mai. Anche l'Olanda ha le sue perle, e pure la Spagna (mai sentito The Secret Society?). Tutte realtà destinate ad essere notate solo a livello nazionale. Come le nostre.