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R Recensione

8/10

Jandek

You Walk Alone

Nel 2003 è uscito Jandek on Corwood, un documentario di 88 minuti che prova a rivelare qualcosa sull'enigma più longevo, bizzarro e solitario della storia della musica rock, ovvero il cantautore texano Jandek (così recitano i titoli di testa).

Sono anni che provo senza successo a recuperarne una versione sottotitolata (chi può mi aiuti), ma nel frattempo fortunatamente mi hanno agevolato gli spezzoni sparsi su YouTube: ci sono alcune fotografie (poche, di solito si tratta di immagini immortalate su qualche copertina) che ritraggono un redneck, uno fra i milioni di immigrati irlandesi che hanno invaso le pianure del Texas un paio di secoli fa e che ancora oggi conservano quell'aria stralunata e vagamente celtica; ci sono un po' di personalità della musica texana che provano a tracciare un ritratto, ma tutto rimane piuttosto confuso, appunto enigmatico, nonostante Jandek nel 2004 abbia iniziato a esibirsi dal vivo e a scodellare dischi live con continuità impressionante, intitolandoli “Glasgow Sunday”, “Manhattan Tuesday” e così via.

L'accostamento a Daniel Johnston, scomparso poche settimane or sono e proveniente (non credo possa derubricarsi tutto a casualità) dal medesimo paese (il Texas è una nazione a sé, ve lo confermerà chiunque ci sia stato; le cose che lo accomunano a New York sono più o meno le stesse che lo accomunano a Milano, lingua a parte), è abbastanza naturale ed è forse l'unico plausibile.

Entrambi sono i musicisti outsider per antonomasia e, anche dopo diversi ascolti, risultano tendenzialmente inclassificabili. Entrambi hanno sfornato centinaia di brani e decine di album per soddisfare un bisogno puramente personale, noncuranti del disinteresse manifestato per lungo tempo da pubblico e critica; entrambi lambiscono l'autismo e sono meravigliosamente disfunzionali. Come Daniel Johnston, Jandek – per i nostri parametri – non è un bravo musicista, non è un bravo cantante, non è un grande poeta, è probabilmente ignaro di buona parte delle regole dell'armonia, non sempre pennella melodie indimenticabili, non è un produttore avveniristico. In sintesi, è quasi anti-estetico e neppure per un istante prova ad assecondare le nostre aspettative.

Ciononostante, la sua musica ti sfonda il cuore. Gli Jandek del mondo mi ricordano l'abusato aforisma sul calabrone: viste le proporzioni tra ali e corpo, il calabrone non potrebbe volare, ma lui non lo sa e se ne frega.

La parola chiave che descrive quella che è una sorta di antologia del suo primo decennio di carriera (“You Walk Alone”, datato 1988) è sempre la stessa, ovvero autismo, come testimonia anche il fatto che il texano abbia fondato una propria etichetta (la Corwood) e sia naturalmente l'unico artista che la stessa abbia mai pubblicato.

Jandek si preoccupa solo di dialogare con sé stesso, quasi fosse il Thelonious Monk della musica d'autore. Gli ingredienti della sua miscela non variano sostanzialmente mai: il blues rurale delle sue terre, forse il blues più involuto e al tempo stesso surreale del dopoguerra; un noise rock spartano nei mezzi e nei modi che evoca addirittura i Velvet Undergound (“Quinn Boys II”), anche per le percussioni asincrone; una cantilena sgraziata che allude a un passaggio melodico memorabile prima di affogarlo tra le scintille della chitarra; un talking blues scarnificato fino all'osso (la lunga “Time and Space”); una psichedelia fragile e tormentata, quasi la versione rudimentale dei voli pindarici di Tim Buckley e Fred Neil (“The Cat That Walked From Shelbyville”); un folk blues carico di un pathos quasi insostenibile (“The Way You Act”); un viaggio cosmico davvero buckleyano, solipsistico e di una bellezza diafana e stordente (“When Telephone Melts”).

In Jandek On Corwood, un ragazzo cattura con precisione le sensazioni destate dal primo impatto con Jandek: ti sembra di ascoltare un bambino di dieci anni che conosce pochi accordi ed esplora la chitarra scovata nel ripostiglio di papà, abbandonandosi a una sorta di stream of consciousness; al secondo ascolto però scopri che c'è molto, molto altro, e così vale anche per gli ascolti successivi.

Jandek secondo me funziona perché ha una capacità unica di tradurre in note un preciso stato emotivo, lasciandolo poi oscillare tra poli opposti, dissezionandolo, radicalizzandolo. Jandek è un musicista romantico, sotto questo profilo, ancorché eviti manierismi ed enfasi come la peste, e suoni invece distante, cabalistico, serrato nel proprio insolito mondo.

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FrancescoB, autore, alle 18:53 del 2 giugno 2020 ha scritto:

Sperando di non peccare di egocentrismo e di attirare invece l'attenzione dei grandi outsiders di SDM (Zagor su tutti), porto in auge questa recensione per conoscere le vostre opinioni su questo artista misterioso.

Marco_Biasio alle 19:07 del 2 giugno 2020 ha scritto:

Mi ci ha iniziato tanti tanti anni fa Francesco (Targhetta), che chissà come ci era entrato in contatto (bisognerebbe chiederglielo, magari si rifà vivo...). Artista davvero incasellabile e invalutabile, almeno dalla mia prospettiva. Certo, non aiuta la dedalica e pantagruelica produzione discografica...

FrancescoB, autore, alle 19:28 del 2 giugno 2020 ha scritto:

Davvero? Non sapevo che Target l'avesse contattato

In ogni caso è davvero difficile classificare Jandek, posso solo dire che a mio avviso si tratta di un fenomeno quintessenzialmente americano, impensabile in ogni altro posto del mondo per mille motivi.

zagor alle 21:03 del 5 giugno 2020 ha scritto:

non conosco e prendo nota, proposta come sempre eccellente da parte di Francesco