Jimmy Page
Outrider
Un ingrigito ma sveglio Jimmy Page, appollaiato sopra un autobus a due piani a suonare “Whole Lotta Love” agitando la sua inconfondibile Les Paul in pieno stadio olimpico di Pechino, completamente gremito per la cerimonia di chiusura dei Giochi: non vi poteva essere scelta migliore, a mio gusto, per rappresentare la Gran Bretagna e Londra, prossima sede olimpica nel 2012.
Tre minuti di emozione, al di là di tutto, della retorica e della politica, dei regimi repressivi e delle democrazie guerrafondaie, della base registrata sulla quale veniva aggiunta la sua chitarra e dell’ennesima sciantosa poppettara accanto a lui, scelta per tenergli botta e canticchiare lo storico (e dal machissimo testo, fra l’altro) suo capolavoro.
Il mito di questo musicista si fonda sostanzialmente su una stagione relativamente breve: i primi sei, sette anni con i Led Zeppelin dal 1969 al ’75, con l’uscita dei primi sei loro dischi, uno più bello dell’altro e tutti fondamentali per qualsiasi discoteca. Ciò che ha combinato prima, negli anni sessanta (la sua corposa attività di session man, la sua militanza negli Yardbirds) e dopo (gli ultimi, problematici e tossici anni con gli Zepp, le colonne sonore, il progetto Firm insieme al cantante Paul Rodgers, il progetto Coverdale-Page, quel paio di dischi con lo sfiatato Robert Plant anni ‘90, i concerti autocoverizzanti con i Black Crowes…) poco aggiungono alla memoria storica che pone quest’uomo senz’altro fra i maggiori e più influenti musicisti della nostra epoca.
Pure quest’album, unico suo disco solo, non riesce ad essere una pagina importante di carriera. Decorosa si, però: nella scaletta di nove brani vi sono alti e bassi, e anche… medi, così da poter strappare un giudizio complessivo discreto. Abituato da sempre a collaborare fianco a fianco di un cantante, delegando melodie vocali e testi per potersi concentrare su riff, armonie e arrangiamenti, Page qui utilizza ben tre vocalist (oltre a tre bassisti e due batteristi). Non una nota di tastiera viene suonata, preferendo tenere il massimo spazio possibile per le chitarre, dopotutto è un disco a suo nome...
I brani notevoli sono tre: il primo si intitola “Wanna Make Love” ed è nobilitato da uno di quei magnifici riffoni profondi e conturbanti, risonanti e metallici, gustosi e frementi, ineguagliabile marchio di fabbrica del grande chitarrista. Anche l’uso della leva della Stratocaster, applicato non in maniera effettistica ma per disaccordare o glissare leggermente le note in modo da iniettare ulteriore profondità e tensione alla musica, dà valore aggiunto a questo sapido rock blues.
Sul quale si staglia la bella voce di John Miles, sottostimato ed ottimo musicista britannico che viene in genere ricordato solo per il suo giovanile debutto (col botto) di “Music”, quando invece ha scritto e interpretato in seguito pagine ben migliori, meno retoriche e più sanguigne. Il suo talento vocale non è certo paragonabile a quello dei (giovani) Plant o Gillan o di Coverdale, ma John dimostra qui di potersela cavare benissimo in ambito hard rock, col suo timbro alto e penetrante, malgrado non sia esattamente il suo genere.
Altra chicca che si incontra all’ascolto è una cover di Leon Russel, “Hummingbird”, affidata all’ugola adulta e blueseggiante di Chris Farlowe, vecchio leone di Colosseum ed Atomic Rooster, anche lui con una carriera solista piuttosto di sottobosco. Il suo stile potente e gigionesco torreggia in questo pezzo, non riuscendo in ogni caso a mettere in secondo piano la grande tessitura armonica creata da Jimmy, e soprattutto l’ispirato assolo di chitarra che si inerpica creativo e pieno d’anima sui cambi d’accordo.
Ultimo picco dell’album è il lungo e intenso “Prison Blues”, affidato nuovamente a Farlowe per quanto riguarda il canto. Piuttosto canonico nel suo sviluppo, non lo è affatto nel lungo assolo, grazie alla scelta di note accurata ma allo stesso modo istintiva e calda da parte del Maestro che regala, per quanto lo riguarda, una performance degna della superba “Since I’ve Been Loving You” del Dirigibile (chiaramente senza Plant, Bonham e Jones a tenergli testa, non vi può essere vero confronto…).
Fra i brani “medi”, quelli che possono andare, va annoverato l’altro contributo compositivo e vocale di Miles “Wasting My Time”, un tosto hard rock messo in apertura al disco, ed i tre episodi strumentali “Writes Of Winter”, “Liquid Mercury” ed “Emerald Eyes”, piacevoli riempitivi ad intercalare e distanziare i brani maggiori.
Un paio di ciofeche infine abbassano decisamente la media qualitativa. La prima di esse è proprio l’unico brano cantato e co-firmato da Robert Plant, in teoria il momento clou del disco. Invece “The Only One” è un episodio privo di ispirazione, definitivamente affondato da uno svogliato e irritante Plant che farfuglia alla bell’e meglio alcuni suoi standard vocali e testuali, di melodia incerta e appena abbozzata.
A conclusione dell’album sta poi un inutile “Blues Anthem”, nel quale il vocione sempre a rischio di cialtronaggine di Farlowe si stende in tutta la sua prosopopea, su di un arrangiamento orchestrale stucchevole e spompato, del tutto discordante con l’atmosfera asciutta e rock blues fino a lì mantenuta.
Disco non indispensabile, però… utile.
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