Morphine
Good
Immagina di sentirti irresistibilmente attratto dall’aspetto tetro e fatiscente dell’edificio. Ti sorprendi a fissare inebetito l’insegna equivoca e scrostata (il tubolare dell’H è fulminato, la E finale, sbrecciata da una sassata, lascia intravedere il filtro del condensatore). Da lì a scendere incauto fino al seminterrato attraverso un corto budello di gradini screziati dagli umori che la notte piovosa ha rappreso sotto le suole, il passo è breve. Ad accoglierti è un salone in penombra col bar a ferro di cavallo schiacciato contro la parete, il soffitto così basso che non vedi l’ora di metterti seduto; l’aria è sapida e corrotta, le volute di fumo incorniciano volti non certo familiari: facce da tagliagola (e qui ti viene in soccorso Cummings “They’ll kill like you would take a piss”), vecchie checche in pensione e veterane della fica. - Dopotutto l’inferno non è poi così lontano visto da quaggiù – pensi, e fai un cenno all’uomo dietro il bancone che sta venendo verso di te per dirgli che è tutto a posto, che ti sei sbagliato e che ora te ne vai, dopo avergli strofinato il palmo della mano con una salvietta da cinque, per il disturbo. In quell’istante, però, lo sfarfallio di un faretto ravviva un angolo di tenebra, un podio per orchestra compare dal nulla, sopra tre figuri dall’aria losca, fasciati d’ombra, imbracciano i rispettivi strumenti e si osservano la punta delle scarpe nell’ attesa di cominciare. Sì, lo sai che non sono là per suonare My funny Valentine, eppure mica ce la fai ad alzarti, è come se qualcuno ti avesse annodato le stringhe alle zampe dello sgabello. La terra ti frana sotto i piedi ed il sogno comincia…“Buonanotte, signore e signori, noi siamo i Morphine”.
C’è un basso a due corde e un sax tenore, due strumenti che non potrebbero mai accordarsi perfettamente tra loro, sarà per questo che il suono che n’esce è vitreo, irregolare, profondo come l’eco che rimbalza nel ventre d’una giara; c’è una batteria recintata di timpani e tom che continua a plasmare figure mobili e concentriche. “You’re good, good, good / you’re good…”, l’epiteto si ripercuote dagli angoli fino al centro dello stanzone semideserto, ma la voce di Sandman (lo “spauracchio”, l’”uomo nero”, nomen omen) è abulica e priva d’emozioni, a tratti turbata dal delay. Questo è blues dell’assurdo fra Beckett e B.B. King (un rosario di B.). The saddest song è pura metempsicosi. La concava progressione del basso risucchia la linfa degli accordi di Good (sempre pochi, sempre quelli) nelle sabbie mobili di una ballata jazz, Sandman stavolta si traveste da crooner, suadente e vellutato come un Chet Baker sotto Dilaudid. Claire è di un’astrazione quasi Zen; il sax baritono di Dana Colley mena le danze, Deupree collassa sui tonfi del tam tam, Sandman ammette la propria dipendenza dall’accidia, madre di tutti i vizi, e semincosciente immerge l’ugola nel risciacquo denso e paludoso che galleggia in bagno, sul fondo del lavandino.
La “scimmia” si allontana per qualche tempo, incalzata dall’andatura pow wow di Have a lucky day, ossessiva, divagante riflessione sul relativismo che sgretola le illusioni del giocatore d’azzardo, calcolo incommensurabile delle probabilità che rendono la nostra vita degna di essere attraversata, non vissuta. You speak my language è un treno che corre sul binario morto dove “speed” non indica certo la velocità consigliata: rockabilly noir, pieno su vuoto in architettura ritmica, lo “straniero” di Camus che intervista la Babilonia dei bassifondi. La voluptas del perdente è criptata nel gibberish/esperanto che Sandman incastona nel ritornello. L’oasi della benzedrina si dissolve pian pianino d’innanzi alle pupille sprangate con You look like rain: cool jazz del duemila dove Gerry Mulligan s’imbatte in Cornell Woolrich e Tom Waits offre da bere ad Elmore Leonard. Do not go quietly under your grave ha lo stesso vigore incendiario di Have a lucky day, la stessa filosofia da boudoir: memorie dal sottosuolo, elegante confessione d’un vecchio libertino, spietata sentenza di predestinazione, “Did everything wrong but i never got caught / so of course i would do it all over again / (…) in a world gone to hell where nobody’s safe / do not go quietly under your grave”. Con l’intermezzo di Lisa, sgraziato mini-assolo di Colley, la band ordina finalmente da bere e rinfrancata brandisce lo scettro melodico di The only one, mellifluo gospel del male degno di un Nick Cave, altro noto frequentatore della bettola. Test-tube baby è un fibrillante shuffle ferroviario, una filastrocca allegorica sulla routine tossica. The other side, un voodoobilly blasfemo (“Yeah, i walked to the church house but i didn’t go inside / cause i, i once slept with preacher’s wife / she handed me a ticket to the other side”) in cui Sandman delinea lo scenario che verosimilmente ci attende dopo il trapasso: crocevia fra l’Ade e la “Grande Depressione” scrutato da un passeggero che è per metà Orfeo e per l’altra Hucklberry Finn. E se la fede non ci aiuta a trovare una via d’uscita in questo sordido androne che assomiglia parecchio alla nostra vita, almeno possiamo rimboccare fino all’orlo il calice del cupio dissolvi e cadere in braccio alla narcosi del dittico finale I know you.
Mark Sandman formo i Morphine nel 1990. Era già un veterano della scena di Boston ( “red right hand” di David Champagne nei Treat her right con cui incise tre ottimi dischi e poi per breve tempo nei Supergroup) quando si unì a Dana Colley e Jerome Deupree, che in seguito fu sostituito da Billy Conway (ex Treat her right). Con loro incise cinque album sulla falsariga di quello che una volta definì “grunge implicito”. Si congedò dal mondo di chi veglia il 3 luglio del 1999 sul palco di “Nel nome del rock Palestrina”, a Roma. Le sue ultime parole furono: “Grazie Palestrina. È una serata bellissima, è bello stare qui, voglio dedicarvi una canzone super-sexy”.
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