R Recensione

7/10

The Black Keys

Attack & Release

C’è un pilastro che tiene in piedi la storia musicale del ventesimo secolo: il blues. Probabilmente la forza cultural-stilistica più importante dai tempi del romanticismo. Si può dire infatti che da essa discenda praticamente tutta la musica popolare contemporanea, dal primo jazz al rock’n’roll, all’hard-rock e via di seguito. In questo lungo percorso che vede allacciare maestri come Robert Johnson, B.B. King, Eric Clapton e Jimmy Page si arriva alle soglie di un nuovo secolo. E ci si chiede se abbia ancora senso fare blues. I Black Keys, tra gli ultimi grandi interpreti della tradizione blues-rock, non sembrano avere dubbi in proposito.

La carriera del duo di Akron (Ohio, alias Usa), ossia del chitarrista Dan Auerbach e del batterista Patrick Carney è un fulgido esempio di quanto possa ancora emozionare il blues in una versione aggiornata ai tempi moderni. Aggiornata neanche poi troppo, in fondo, visto che dischi come The big come up e Rubber factory si sarebbero benissimo potuto ascoltare nel 1967 o giù di lì, durante quella bambagia garage-rock che sembrava essersi impossessata dell’America. Eppure nonostante un suono dal sapore antico i Black Keys sembrano molto più moderni di quanto non vogliano apparire, e viene da chiedersi come sia possibile questa contraddizione? Probabilmente ciò dipende dal fatto che una buona fetta di rock è rimasta ancorata ad un suono e a uno stile che ha fatto il suo tempo già da decadi, senza però che sia uscito dai cuori di molti appassionati. Ecco perchè in mezzo alla baraonda di revival e rétro che caratterizza anche buona parte di questo decennio merita un posto di prestigio chi riesce a suonare con il cuore più che con la testa, chi riesce a creare emozioni anche senza essere innovativo, chi riesce semplicemente a suonare con classe, garbo e un pizzico di cattiveria.

Queste doti i Black Keys ce le hanno tutte e non sorprende allora la loro consacrazione da parte della critica omaggiante quel capolavoro che fu Thickfreakness (2003), sequela micidiale di riff e assoli primordiali. I successivi Rubber factory (2004) e Magic Potion (2006) rallentavano un pò il ritmo ma continuavano a scalciare violentemente sotto il tavolo con il loro sound appositamente sporco e low-fi. Attack & release, quinto lp del gruppo, rappresenta già una notevole novità per il semplice fatto di essere il primo disco non autoprodotto. A curarlo è stato infatti chiamato Brian Burton, più famoso come Danger Mouse, definito da Mark Linkous (Sparklehorse) come il “Jimi Hendrix del lap top".

Il risultato è che le spigolosità si arrotondano e la scorza ruvida si ammorbidisce, senza però cambiare l’essenza musicale che è e resta un garage-rock intinto di blues e tradizione musicale americana. Insomma Danger Mouse ci butta lì un organo, un banjo, qualche synth, qualche coro, ma la sostanza è sempre la stessa. E pazienza se in Same old thing sembra di sentire un flauto alla Jethro Tull quanto meno inaspettato. In fondo non è questo il problema. Il problema è che mancano spesso le canzoni. O perlomeno spesso ci si ritrova di fronte a brani mediocri, senza nerbo, tenuti in piedi solo dalla gran classe di Auerbach. È il caso del country-blues di All you ever wanted, del soul-rock di So he won’t break, del garage low-fi di Oceans & streams e del soul-blues di Remember when (side A), appiattito da un’effettistica eccessivamente onirica. Tra gli episodi “lenti” molto meglio pezzi come Psychotic girl, Lies e soprattutto Things ain’t like they used to be, splendida ballatona strappalacrime (in duetto con l'artista bluesgrass Jessica Lea Mayfield) dal sapore desertico e sognante in bilico tra Neil Young e Kansas.

Per fortuna non mancano canzoni più sferzanti in cui è la chitarra a tornare in primo piano a riequilibrare il ritmo: i riff essenziali e micidiali di I got mine e Same old thing fanno pensare a vecchi e nuovi maestri come Jimmy Page e Jack White. Remember when (side A) è lo spunto garage-rock più tirato del lotto mentre Strange times è un blues-rock talmente spinto da suonare quasi stoner.

In sostanza Attack & release non è un capolavoro, non è mediocre, sfrutta momenti estasianti ma talvolta si perde un pò. Però un blues suonato con tanta maestria non si sentiva davvero da tanto tempo.

V Voti

Voto degli utenti: 6,6/10 in media su 14 voti.
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REBBY 6/10
rael 6/10
gasmor 8/10
NDP 0,5/10
Dengler 6,5/10

C Commenti

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simone coacci (ha votato 7 questo disco) alle 18:07 del 4 aprile 2008 ha scritto:

Dunque, i primi due dischi erano buoni. Ma molto.

S'era nel 2002-2004, l'età dell'oro dei power duo.

Poi mano a mano che il repertorio s'infoltiva e lo spettro strumentale si allargava, la scrittura è diventata sempre più piatta, meno affilata, inutilmente espansa (si fa per dire, nei limiti del genere). Sinceramente, qualche anno fa avrei scommesso su di loro almeno un quarto di stipendio, ora non direi. "Magic Potion" mi ha abbastanza disamorato. Questo me lo devo procurare. Pare sia nato da una collaborazione con Ike Turner, ma purtroppo il vecchio pirata ha tirato le cuoia prima del tempo. Quello che ne è scaturito è finito poi sul disco. Altrove ne hanno tessuto le lodi. A parole non mi hanno convinto del tutto. All'ascolto, ti saprò dire. Bel lavoro, comunque, fratello.

simone coacci (ha votato 7 questo disco) alle 13:08 del 24 aprile 2008 ha scritto:

Allora, 'sto disco non è male. Più riuscito dell'ultimo, senza meno. Questo è il loro standard: non avranno mai la sfrontatezza per diventare i nuovi Stones (potevano farlo i White Stripes, al massimo), ne la classe per rifare Cream e soci (Bluesbreaker ecc. ecc.), ne l'oltranzismo sonico del vero Jon Spencer. Qua tentano di fare entrare più melodia (soul sopratutto, talora folk, ma poco) nella loro darsena. A volte ci riescono ("Remember When - Side A", "So he won't break", che cantata da Amy Winehouse, mmm, diventerebbe una roba per palati sopraffini) altre volte meno ("Things ain't like they used to be", sembra pronta per essere spadellata in un disco degli U2). Chi s'accontenta gode sicuramente. Tra il 6 e il 7 direi.

PierPaolo (ha votato 5 questo disco) alle 14:57 del 4 agosto 2008 ha scritto:

Tutto qui?

Comprato due settimane fa, e ascoltato più volte: mediocrissimi, col batterista che tira indietro da vero dilettante (e già che non c'è neppure il basso a sostenerlo), un vero pianto come musicista, . Cantante chitarrista come ce ne sono milioni al mondo, magari ad un angolo di strada o di metropolitana. Manca proprio il tiro, il groove, a parte il songwriting che sta dentro il genere senza la minima sorpresa. O sei geniale, o sei arrabbiato, o sei bravissimo, o sei originale, o sei sexy, qualcosa devi essere nella musica e questi non sono niente (in questo disco). Li ho comprati insieme a un vecchio disco dei Family, mamma mia Roger Chapman un marziano, un semidio rispetto a questi due modestoni. Amen.

synth_charmer alle 22:08 del 20 giugno 2010 ha scritto:

sto ascoltando i loro primi dischi. Sì, non sembrano aggiungere granchè a quel suono classico che risale a 40 anni fa. Però ci mettono una bella energia, almeno nelle prime uscite, e l'ascolto diventa piacevole, anche se rimangono comunque molto derivativi. E' pericoloso percorrere un binario già molto battuto per lungo tempo, il rischio di ripetitività è enorme. L'ultimo album mette qualche ingrediente in più, devo ancora valutarne l'effettica incisività

alekk alle 19:36 del 11 dicembre 2013 ha scritto:

Passabili ... Meglio i due album d'esordio però !