The Rolling Stones
Aftermath
La scena musicale inglese degli anni ’60 ha due volti: da una parte c’è il Merseybeat, con i suoi gruppi innocui (i Beatles per esempio), non particolarmente innovativi, caratterizzati dal tentativo di riportare sulla retta via quel rock’n’roll che era stato tanto demonizzato sul finire degli anni ’50. È un Inghilterra di ragazzine urlanti di buona famiglia, di ragazzi che di Vietnam e di povertà sanno molto poco, di case discografiche che tentano di massificare ed edulcorare i progressi della musica rock del periodo.
Dall’altra parte però vi è esattamente l’opposto: l’Inghilterra “sporca”, quella di chi è immerso dei conflitti sociali, di chi denuncia la situazione attuale, di chi è impegnato a creare una musica che rispecchi il suo stato d’animo… Ed è qui che entrano in gioco i Rolling Stones.
Seppure il loro Aftermath non raggiunga i livelli formali di opere quali Freak Out di Zappa o di Blonde on Blonde di Dylan, in quanto a contenuti gli Stones mostrano di essere perfettamente al passo con i tempi e all’altezza dei contemporanei.
La scelta del blues come sound portante dei loro pezzi è fondamentale: si vogliono rappresentare e si vuole usare il linguaggio dei nuovi neri, dei nuovi schiavi, e per farlo si ricorre proprio alla musica che cantavano i neri americani per le strade o nei campi di cotone.
Inoltre i quattro pongono le basi per quello che d’ora in poi sarà l’archetipo della rock band e del suo “modus vivendi”, insomma: sex,drug and rock’n’roll! Niente di più lontano dalle canzonette beatlesiane…
Paint It Black è un pezzo che si cala a perfezione nelle sonorità esotiche in voga nella musica psichedelica del periodo, ma invece di usare il sitar per accompagnare parole di pace e di amore, come facevano gli hippie americani, qui i temi principali sono l’assenza di colore e la rabbia, che esplicitano subito l’umore di tutto l’album. Si tratta del pezzo più particolare di Aftermath,che segna anche una certa evoluzione stilistica del gruppo, un brano immortale, destinato a rimanere ben impresso nella mente degli ascoltatori.
Stupid Girl si costruisce su un beat regolare, su un vivace organetto e su un basso tipicamente blues. La struttura è la stessa delle canzoni merseybeat, ma questa non è una canzonetta, sia per il testo che sembra proprio scagliarsi contro le tipiche fan del genere dei quattro di Liverpool, sia per un uso decisamente più consapevole e violento delle chitarre. Il tema poi è davvero immortale, tanto che oggi può apparire banale e scontato (vedi per esempio le inutili canzonette come Stupid girls di Pink…).
Lady Jane è una delicata ed equivoca ballata d’amore, ma fortunatamente mancano le rifiniture eleganti che sarebbero presenti se si trattasse di musica pop. Inoltre l’amore di cui si parla non è idealizzato, né la donna è angelicata: il cantante si sottomette ad una Lady Jane che più che una dolce compagna sembra essere una padrona.
Under My Thumb ritorna a far valere le chitarre elettriche di Richards, arricchite da un melodioso vibrafono. Il titolo avrà sicuramente fatto impallidire qualche benpensante, ma Jagger e soci non stanno scrivendo per questo tipo di audience, al contrario sono un gruppo blues-rock dei bassifondi, e le loro canzoni rispecchiano proprio il milieu in questione.
Doncha Bother Me è un blues rock in cui spicca la chitarra di Richards e in cui i cinque impongono definitivamente il loro stile. Strofa e ritornello costituiscono ancora lo schema portante dei brani, ma ecco che spunta il suono di un’armonica ad aprire uno splendido stacco strumentale; il tutto poi riparte con il solito irresistibile motivo iniziale.
Think è un altro pezzo innovativo, non per il fatto che stravolga la forma canzone, ma perché ne modifica la funzione, l’interpretazione ed il messaggio. Inoltre viene dato maggior peso alla parte strumentale, soprattutto a quella chitarristica, al contrario di come continuavano a fare gruppi come i Beach Boys, impegnati nella cura delle parti vocali e corali.
La bellissima Flight 505 vede un pianoforte dixieland e poi veloci ed energici accordi di chitarra, dare vita ad un trascinante pezzo rock’n’roll intriso di blues da bettola, sporco e rude, caratterizzato dalla voce nasale di Jagger.
High And Dry è un pezzo di blues delle origini: ruvido, schietto, esplicito ed evocatore della vera essenza del genere, quella che nei quartieri bene si cercava di dimenticare. L’armonica suona più ispirata che mai, riportandoci alle radici della musica, le radici più autentiche e genuine.
Ma dalle radici deve nascere qualcosa, ed ecco che It’s Not Easy ripropone quel sound veloce e corrosivo tipico delle tracce precedenti. Un ottima sessione ritmica ed una chitarra precisa rendono unico ed originale il ritornello, destinato a sfociare verso assoli tecnici e irresistibili. La voce graffiante di Jagger è poi indimenticabile e destinata a lasciare segni molto profondi nel rock a venire.
I Am Waiting è dominata da un tutt’altro che banale senso della melodia, nuovamente riconducibile alle sonorità psichedeliche tipicamente anni ’60, capace di contrastare, ma senza stonare, con gli altri brani dell’album. Insomma, si tratta di tenerezza, ma sempre proveniente dai nostri “rudi, brutti e cattivi” Stones. Come al solito il pezzo si conclude in fade out per lasciare spazio alla bellissima Going Home, l’ultima traccia.
Si tratta di un blues “ciondolante” portatore di un messaggio romantico, ma si parla qui di un romanticismo sempre strettamente collegato alla dimensione carnale, mai idealizzato. Il pezzo va avanti con la solita struttura, ma questa volta non finirà con lo spegnersi in tre minuti: stiamo infatti ascoltando una lunga jam di undici minuti, in cui Jagger trova sfogo e si lancia in una serie di vocalizzi liberi.
Se ne vanno quindi stupendoci i Rolling Stones, impressionando un’intera generazione che porterà nel cuore il loro mito e le loro canzoni e una serie di gruppi la cui musica risulterà profondamente influenzata da queste pietre (miliari) rotolanti.
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