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7/10

Benjamin Booker

Benjamin Booker

Tutto cambia per non cambiare. Il famoso mantra del Gattopardo riassume quello che è il circolo vizioso delle mode musicali: una perenne smania di innovazione che finisce con l’inevitabile ritorno alle radici dell’arte. Dall’orpello elettronico al tritono blues: il back to the roots che John Mayall cantava già nel lontano 1971 oggi è oro che cola nelle mani di gente del calibro di Dan Auerbach e Jack White. Uno spiraglio aperto ad uso e consumo dei più carismatici, di chi con l’immagine convince senza troppi fronzoli ed ha nelle mani la miscela esplosiva per gettare la prosa artistica un po’ più in là. Benjamin Booker ha questa fortuna: per lui non c’è bisogno di deformare le foto con effetti retrica o grandi acchiti estetici, gli bastano un paio di Rayban Clubmaster per accentuare un’espressione disincantata che tradisce tutto il suo mondo interiore. Un mondo costruito attorno alle strade fumose di New Orleans, tra un live improvvisato nella monumentale piazza di Jackson Square e una sigaretta fumata sulle rive taciturne del Mississippi.

Il suo sound ha i segni indelebili di un blues che rinuncia alla maturità introspettiva per impalmarsi all’impeto giovanile del punk in un tripudio di riff densi e pastosi che banchettano a velocità supersonica senza dar troppa importanza alla perfezione. Un magma impetuoso, denso e bollente che scorre inesorabile nell’opener/singolo Violent Shiver, col martellante incedere della batteria di Max Norton che sembra sempre sul punto di esplodere ma che in realtà conserva la tensione costante anche lungo la manciata di minuti che scandiscono Waiting Always.

Poi la furia iniziale si placa, cala una coltre di polvere e l’atmosfera si rarefa. Rimane l’approccio da cantina - quello sì - ma la forma canzone vira verso lidi più classici (Wicked Waters) che richiamano i primi Kings Of Leon, quasi a voler cercare la compiacenza dell’ascoltatore. Ma l’impeto  incontenibile cerca comunque di farsi strada nel valzer assordante di Kids Never Growing Older, prova a spargersi in mille frammenti ma viene contenuto sino a trasformarsi nei sobri istanti intimisti di Slow Coming. E qui l’ugola di Booker si impregna di una teatralità drammatica che lo riporta prepotentemente alle sue radici, a raccontare le proprie intime emozioni attraverso un arpeggio raccolto. La voce è incredibilmente macchiata da un graffiato invadente che sembra voler suggerire una vita vissuta al massimo quando in realtà, si superano di poco i venti anni. Ma poco importa. La polvere sui tamburi, gli amplificatori sdruciti, le meccaniche arrugginite dalle gocce di sudore, il sound sbilenco e l’intonazione calante trasudano dalle canzoni di Booker e marchiano un esordio che somiglia ad una miscela dal retrogusto frizzante, con i giusti attributi per continuare quella che – ci auguriamo – potrà essere una folgorante carriera.

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FrancescoB alle 13:16 del 30 agosto 2014 ha scritto:

Recensione fantastica per un disco che è in cime alla lista delle cose da ascoltare.

Leonardo Geronzi, autore, alle 9:06 del primo settembre 2014 ha scritto:

Sono lusingato. Spero di essere riuscito a divulgare almeno un po' un album passato decisamente in sordina.