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R Recensione

6,5/10

Dommengang

Love Jail

Dici Easy Rider e subito, per magia, saltano in mente una quantità sterminata di associazioni, soggettive ed oggettive, interne ed esterne, positive e negative (ometto le mie per evitare inutili volgarità e polemiche balneari da due spicci e anche perché, in fin dei conti, chi mai vuole sentirlo, il mio parere?). Unico, vero patrimonio comune è, forse, una delle scene più iconiche e rappresentative di un intero immaginario ideologico: Peter Fonda e Dennis Hopper in sella ai loro chopper, pronti a sgasare verso l’infinito e oltre sulle note di “Born To Be Wild” degli Steppenwolf. La domanda è: quanto di quella forza descrittiva sarebbe andata perduta, non fossero irrotte la sporca chitarra distorta di Michael Monarch e l’inconfondibile voce gracchiante di John Kay? Tanto, forse tutto. I losangelini Dommengang non danno, né potrebbero mai dare voce ad un Easy Rider del Nuovo Millennio ed è questo, sotto certi aspetti, che priva la loro musica di quel respiro universalizzante che dovrebbe esserle connaturato: una musica certo classicissima, collocata su coordinate che risapute è dir poco, e pur tuttavia ancora in grado di dire qualcosa, di colpire con la forza della sincerità e la freschezza di un’ispirazione genuina.

L’atto inaugurale di “Love Jail”, tre anni dopo l’esordio “Everybody’s Boogie”, ha del maestoso: “Pastel City” è un boogie-blues trascinante ed innodico, un proiettile southern’n’roll la cui poetica riecheggia esplicitamente i sacri libri di testo (“I’m in a pastel city / Living my life in a hurry / Waiting for something to happen”). Quasi dispiace che il mito della frontiera sia rimasto vittima della propria insopportabile retorica: reificazione migliore, a volerlo ammettere onestamente, ancora non c’è. Si viaggia a velocità sostenuta su ampie strade illuminate, senza perdere un colpo né girare a vuoto: “I’m Out Mine” sono i Black Keys near-stoner di “I Got Mine” sporcati di psichedelia fuzz (e con coda in feedback), la secca “Lovely Place” si gonfia in un fragoroso crescendo chitarristico, “Stealing Miles” frega le chitarre ai ZZ Top e le armonizzazioni vocali agli Assemble Head In Sunburst Sound, “Going Down Fast” costruisce un build up alla Creedence per poi sfoderare nel refrain una sciarada quasi indie rock, mentre “Dave’s Boogie” aumenta il contagiri sulle traiettorie di uno scatenato hard-psych tutto strumentale (non menzioniamo nemmeno il tracimante basso distorto). Eccetera eccetera. Ogni tanto la monotonia del panorama prevale ancora sull’unicità dell’esperienza: ci si deve allora fermare per un breve pit stop, attraverso le tenui suggestioni desertiche della title track e le ignifughe geometrie psichedeliche di “Stay Together”, superando a destra la linearità pop di “Color Out Of Space” e il ruzzolare maschio di “Lone Pine”. Poi via, di nuovo, sempre in movimento, tramutando il viaggio in meta e la meta in causa: un ovest d’estenuante e limitatissima immensità.

Come tutti i vecchi della sua età un po’ logorroico lo è, siamo d’accordo. Eppure, per essere morto, il rock’n’roll continua a godere di ottima salute. È la cromatura della Cadillac, quella, o la camera iperbarica?

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