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R Recensione

6,5/10

Joe Bonamassa

Different Shades of Blue

Il blues-rock forse è la quintessenza del vecchiume, ma quando i pezzi ci sono, le capacità strumentali pure, le idee altrettanto, beh direi che nel 2014 possiamo anche godere di un disco di blues-rock polveroso.

Joe Bonamassa, canadese di chiare origini italiane, è chitarrista di valore e stimatissimo dai colleghi da diverso tempo, nonostante l'età ancora relativamente giovane (37 anni). "Different Shades of Blue" è uno dei suoi numerosi dischi riusciti: per quanto mi riguarda, fatico terribilmente a qualificarne uno come "capolavoro", ma è altrettanto vero che raramente Joe ha sbagliato del tutto mira.

Il suo sound trabocca sempre di idee e intuizioni simili, e certo non rivoluzionarie, ma possiede un dono prezioso e dal peso incalcolabile, ovvero la freschezza.

Ecco perché l'ultimo lavoro non tradisce le attese, e soprattutto non annoia, nonostante certe session strumentali potessero forse essere più compatte (come accade spesso ai talenti naturali, Joe viene un po' sfruttato dalle sue capacità strumentali, anziché sfruttarle, iniettando in ogni composizione preziosismi, schegge di bravura e virtuosismi non sempre centrati).

Come detto, lo stile non cambia mai più di tanto: robusti r'n'b in cui la sua chitarra la fa da padrona, ora southern, ora più vagamente sulla falsariga di Jeff Beck e Rory Gallagher, ora puro blues claptoniano. I fiati ogni tanto arricchiscono la miscela strumentale, ma a fare la differenza sono anche le buone intuizioni melodiche.

"Oh Beautiful" stordisce con i suoi cambi di passo granitici e veementi, e pare uscita direttamente da qualche session consumata in Alabama una quarantina d'anni fa. Eppure, mistero della fede, possiede la scintilla che te la rende godibile.

La title-track, che vede Joe cimentarsi anche con la chitarra acustica (con la consueta maestria) è il pezzo migliore: una ballatona old-style forte di una melodia arcuata e struggente che si alterna ai soliti pezzi di bravura alle sei corde. Anche il soul ampolloso e malinconico di "So, What Would I Do", nonostante certe svenevolezze un po' prevedibili, è riuscito nella costruzione melodica, e strumentalmente riesce sempre impeccabile.

In sostanza, anche nessuno griderà al miracolo, qui c'è roba buona per chiunque adori la sua chitarra e anche per chi desideri semplicemente godersi del blues-rock genuino e con tutti i crismi.

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C Commenti

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PetoMan 2.0 evolution (ha votato 7,5 questo disco) alle 19:08 del 11 novembre 2014 ha scritto:

Disco di pregevole fattura, come suo solito. I riferimenti a Beck, Clapton e Rory ci stanno tutti, aggiungerei anche Buddy Guy, ma lui a mio avviso è più che altro il vero erede naturale di Gary Moore, sia per il sound, che per lo stile, la voce e la disinvoltura con la quale riesce a passare dal blues all’hard rock (su tal versante sono emblematici gli album coi Black Country Communion).

Detto ciò, non lo considero un clone di nessuno, insomma non è di certo il Randy Hansen di turno. Le influenze ci sono, sono inevitabili se si fa questo tipo di musica, ma Joe ha anche una personalità sua.