Movie Star Junkies
A Poison Tree
Per un Trevigiano che si culla negli anfratti più liquidi e sgangherati del garage revivalistico beyond the Ocean, arriva la controparte torinese che manda al fuoco le stars and stripes e si concede un bagno nelle torbidezze del blues come Dio comanda. I Movie Star Junkies non sono esattamente dei novellini: il loro esordio omonimo è di due anni orsono. Addosso anche allinesperienza ed alla sprovvedutezza: chi ha assistito ad un loro concerto vi saprà sicuramente esprimere, quasi trasmettere le sensazioni, le vibrazioni di un evento, come dire, diverso (ed il loro pedigree è rinfoltito di questi episodi: prossimo tour, a spasso per la Francia, in procinto di partire dal prossimo ottobre). Assieme ai Vermillion Sands giusto perché si parlava di nomi importanti riscoprono lAmerica pentatonica, quella che non deve chiedere mai ma, al contrario, essere sempre supplicata, svogliata, sboccata ed irriverente. Spirito e manovalanza a contatto con la materia sono, ciò nonostante, allopposto: se ne consegue che, mentre i primi gigioneggiano con le storture e le vene noir approcciandole face to face, ma con cuore e sentimenti da ben altre placide parti, i secondi sono essi stessi (s)torture e vene noir: la quiete prima della tempesta.
A Poison Tree è un disco sudicio, sulfureo, mefistofelico dove, in proporzione, conta in maniera molto ridotta quello che si dice rispetto a come lo si dice, constatato limpalco macilento e la ridotta espansione su supporto fisico. Facile esibirsi in una tirata interminabile di paragoni, specialmente ora che una certa estetica decadente sembra contaminare limmaginario di una buona fetta di gruppi rock. Eppure i Movie Star Junkies non hanno bisogno di pose. Lacciaio siderurgico a strapiombo sul delta del Mississippi: il ghigno allucinato di Robert Johnson riflesso, di sbieco, dal corso del Po. Il cantante Stefano Isaia, dal canto suo, afferma di essere sempre stato affascinato dalle storie maledette su prostitute, gangsters, beoni e crimini vari: un bagaglio importante, che entra di diritto nella poetica del gruppo. Se riuscite, anche lontanamente, ad immaginare Nick Cave in duetto con Mark Lanegan, i Morphine lacerati da Leadbelly e, più in generale, la musicalità dei Gun Club scorticata dai mantici blues-core di inizio Novanta, siete vicini al risultato finale.
Entrarvi dentro, causa conclamante un tocco di melodia più accentuato rispetto ai deliri corsari del precedente Melville, non è impresa da molto. Il difficile arriva dopo: come uscirne? Perfetta trappola ad orologeria, il sipario si alza sulla torcida morriconiana di Under The Marble Faun, garage andaluso pestato con narcosi crescente, proseguendo poi sulle ali mantriche di Almost A God, un sabba di minimalismo tribale ed elettrico vicino ai Black Widow, tratto da una poesia di Emanuel Carnevali (sì, lo stesso dei Massimo Volume), e The Walnut Tree, piccola tregua a mo di jingle-jangle e tirate folk. Fin qui ordinarietà striata di qualche ottima idea, o poco più. Bastano, però, gli efferati clangori di Leyenda Nera, cruda parata militare a colpi di rullante e sax, per far degenerare bruscamente il secondo troncone se così lo si vuole chiamare e renderlo preda ideale di fantasmi, incubi, allucinazioni. Saddest Smile è una murder ballad che caracolla, sotto i postumi di una sbronza molesta, per finire in braccio alla conclusiva All Winter Long, blues urlato e nerissimo che si scentra progressivamente sui risvolti danzerecci di un unico giro iterato ed ispessito alla nausea, fino a degenerare in un caos agghiacciante, impossibile da sanare anche per i toni surf alla Mojomatics della splendida Hail e lo stomp alcolico della title-track.
Ciurma, a babordo: thàlatta, thàlatta!
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