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R Recensione

6/10

Movie Star Junkies

Son Of The Dust

Vivere e morire a Treviso, tra gli operosi paesini della provincia manifatturiera, costruiti su campi cementificati, che – da soli – impilano più dell’80% di preferenze politiche (politiche?) per la Lega Nord, richiede alti livelli di sopportazione, mimetismo, sfrontatezza. Per vivere e morire a Treviso – e girare, nel contempo, le bettole ed i palchi scalcagnati di mezzo mondo – i Movie Star Junkies avevano optato per la soluzione più complessa: immaginarsi il corso del Po come lento ed asfissiante defluire blues, ricostruire le baracche di lamiera sulle sponde del Mississippi, cantare di sudore, sporcizia ed esoterismo. Un suicidio. Però funzionava, forse in relazione al fatto che, sotto la coltre di ipocrisia, la tracotanza viene silenziosamente salutata come unico antidoto al douleur de vivre, e di sincerità, sincerely spoken, il rock italiano non è mai vissuto oltre un certo livello.

C’è anche un’altra scappatoia, tuttavia, per riuscire a vivere e morire a Treviso: scegliere di morigerare il proprio nervosismo, di centellinare l’impudicizia. “Son Of The Dust”, terzo disco del quartetto veneto, mostra compiutamente, nell’arco di dieci canzoni, tutti i vantaggi ed i limiti di una svolta, a ben vedere, non troppo aspettata. L’approdo alla distribuzione su territorio nazionale per Outside/Inside Records, etichetta nuova di zecca di proprietà dei Mojomatics – che, tanto per prendere due piccioni con una fava, ritorneranno alle stampe nel giro di un mese – è, con ogni probabilità, l’incognita fondamentale nel determinare gli umori dell’album, che evita l’eccesso grandguignolesco di pruriti e sudiciumi per virare verso approdi più malleabili, meglio gestibili e, superfluo aggiungerlo, anche più insidiosi. Gli umori tengono sempre a debita distanza le caracollanti foschie noir dei compagni Vermillion Sands (con cui condividono il bassista, Emanuele "Nene" Baratto, anche negli Squadra Omega) per avvicinare, invece, il blues roots e la polvere di strada di un’elettricità rustica. La title-track si serve di pochi accordi, un onnipresente riverbero, le spazzole sul fondo a graffiare un controcanto corale femminile per dare forma ad un desertico spaccato tarantiniano. In “The Damage Is Done” le chitarre squillano solari sopra l’ululato di Stefano Isaia, mentre la sfuriata noise incastrata nel mezzo di “This Love Apart” non intacca lo stanco jingle-jangle della sei corde e “These Woods Have Ears” nasconde la propria anima sulfurea sotto strati di levigati arrangiamenti beat.

Quando i fantasmi del passato riemergono a fatica, tuttavia, il disco sembra accendersi di un’altra crudezza e farsi decisamente più interessante. “End Of The Day” è garage felpato nelle strofe, stortissimo e claudicante negli interstizi strumentali. “How It All Began” tocca picchi tribali di antimusicalità, per un rituale sciamanico abbarbicato attorno ad un unico, stonato giro su pentatonica ripetuto con insistenza paradossalmente kraut. Aspetto particolare ed intrigante, non sempre i Movie Star Junkies hanno bisogno di comporre non-canzoni per spargere sale sulle ferite e consacrare la propria idea di r’n’r al maledettismo: il blues a singhiozzo di “In An Autumn Made Of Gold” è un brano armonicamente perfetto, che si popola di rumorismi all’approcciarsi del chorus e lavora di cesoia all’interno di un assolo scapigliato, incisivo, sottilmente dissonante. È l’esempio migliore di come la scrittura della band, quando riesce a non farsi imprigionare dalle rinnovate prospettive focali (“A Long Goodbye”, per citarne una, giocata sul contrasto tra l’apertura cupa e la languidezza del ritornello incrociato ma, di fatto, insoluta), sia in grado di competere con le eccellenze di “Melville” e “A Poison Tree”, specialmente nella mediazione di un linguaggio spezzettato, nervoso, scomposto in piccole cellule l’una identica all’altra, come accade in “Cold Stone Road”.

Se proprio dovete scegliere, buttatevi a pesce sui lavori precedenti. Tenendo a mente che, con ogni debolezza del caso, anche i “nuovi” Movie Star Junkies riescono a dire perentoriamente la loro.

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Voto degli utenti: 7/10 in media su 2 voti.
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C Commenti

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stercoraro alle 13:48 del 28 febbraio 2012 ha scritto:

Sono curioso di ascoltare questo nuovo disco dei Movies......bella recensione, ma un piccolo appunto...il gruppo è di Torino.

Slisko alle 16:51 del 16 marzo 2012 ha scritto:

io l'intro della recensione lo riscriverei, tanto per essere precisi. La geografia (e la biografia) ha una sua logica

Marco_Biasio, autore, alle 19:56 del 16 marzo 2012 ha scritto:

RE:

So che Stefano Isaia è di Torino, e penso che anche gli altri siano piemontesi - con l'eccezione di Nene, che è per l'appunto trevigiano -. L'anafora voleva suggerire un'assonanza più musicale che geografica con, per l'appunto, Vermillion Sands e Mojomatics.

Slisko alle 0:01 del 17 marzo 2012 ha scritto:

"anafora de che?!" (cit.) a me sembra solo sbagliato. e c'è pure chi su altri siti,scopiazzando (o ispirandosi), ha riportato il dato biografico errato paro paro.

Cmq wiki e il loro myspace parlano chiaro (per la precisione hai scritto Treviso pure nel pezzo su A Poison Tree, io cambierei pure quella)

SamJack (ha votato 7 questo disco) alle 17:33 del 25 marzo 2012 ha scritto:

Altro grande dissco..."In an autumn made of gold" e "There's a storm" eccezionali